In copertina un pugno che stringe una penna e gronda sangue. Questa è l’immagine simbolica scelta per ripercorrere un processo plurisecolare, che connota la storia del mondo: è il confronto dialettico tra l’affermazione delle libertà di pensiero e di espressione e la continua costruzione, trasformazione, sconfitta e resurrezione dei sistemi per controllare e reprimere quelle libertà. Dal XVI secolo ad oggi, e in particolare dall’avvento della comunicazione scritta e a stampa, il potere con la maiuscola, esercitato da governi e chiese, nonché i poteri meno appariscenti di élites politiche o economiche hanno creativamente inventato strumenti sempre nuovi per cancellare e selezionare, censurare e modellare a proprio vantaggio quanto si scriveva e pubblicava.
Eppure in un’ottica di lungo periodo, a confronto delle torture e mutilazioni – lingue, nasi, orecchie mozzate a menanti e gazzettieri in nome della religione o della sacralità dei sovrani -, a paragone dei supplizi inflitti sulle piazze di tutta l’Europa nel XIV e XV secolo ad esempio, a paragone delle abiure coatte degli eretici e ribelli, l’avvento della censura e dei censori ufficiali appare senza dubbio un passo avanti sulla strada dell’incivilimento. Come ha scritto Norbert Elias, quel cambiamento rientra in un processo di trasformazione comportamentale che nel corso dei secoli tende a reprimere la violenza, introietta e formalizza il conflitto. La barbarie dell’assassinio, volto a silenziare definitivamente una voce eterodossa, eretica o critica, è sostituito dall’intervento apparentemente incruento delle forbici censorie, che, invece di straziare corpi, taglia le pagine dei libri e imbianca le colonne dei giornali.
La modernità si fa strada ripugnando allo spargimento di sangue, ma la pressione sull’individuo non si allenta, prende altre più raffinate forme di condizionamento. Nel libro di Pierluigi Arlotti – La libertà di stampa. Dal XVI secolo ad oggi, Bologna, il Mulino, 2020 – questa evoluzione è scandita dal ricorso ad autori combattivi, da John Milton a John Locke, da Karl Marx ad Alexis de Toqueville, da Walter Lippmann al nostro Giorgio Borsa, per citarne solo alcuni, che stigmatizzarono la censura, dimostrando come scrisse Chateaubriand che «i nemici della libertà di stampa sono anzitutto gli uomini che hanno qualcosa da nascondere nella loro vita […] quelli che desiderano non far conoscere le loro azioni e le loro manovre, gli ipocriti, gli amministratori incapaci, gli autori fischiati, gli intriganti e i servitori di tutte le specie».
Sembrerebbe una traiettoria di «meravigliose sorti progressive» quella tracciata nel libro, ove si registrano le dichiarazioni di principio incluse nelle costituzioni di un numero sempre più ampio di paesi: a partire dalla rivoluzione americana fino ad arrivare ai testi programmatici dell’Onu si moltiplicano le scelte costituzionali che pongono la libertà di stampa a fondamento dello Stato di diritto e/o ne garantiscono il nesso con la democrazia. A mettere in forse tale ottimistico trend è tuttavia un fenomeno diffuso di discrasia tra parole e fatti. Intercorre spesso infatti uno iato che fa rientrare dalla finestra i controlli e i sequestri delle pagine a stampa, le vessazioni e persecuzioni di autori, editori e tipografi, insomma tutte le misure repressive in teoria cacciate dalla porta. Basti ricordare lo Statuto albertino, liberale nella sostanza, ma smentito poi nell’Italia postunitaria dagli arbitri di prefetti e questori, obbedienti nel fiancheggiare governi reazionari e maneggioni, prefigurando reati di istigazione eversiva o di diffamazione per colpire la stampa di opposizione. Il Novecento in questo percorso sembra configurare un regresso formidabile, specie nella prima metà del secolo, con l’avvento di sistemi totalitari che monopolizzarono la comunicazione pubblica e raffinarono le strategie di manipolazione della realtà, creando consenso o almeno conformismo collettivo. I giornalisti e gli scrittori indocili affrontarono esilio, carcere, lager e gulag, alcuni persero la vita rifiutando di servire quei regimi che, lo affermò esplicitamente Mussolini, consideravano il giornalismo come «un’orchestra ben intonata». Anche l’inizio del nuovo secolo deluse quanti speravano in una diffusione globale dei sistemi democratici e pertanto della libertà di stampa, che di quei sistemi è la chiave di volta. Anzi il cerchio pare chiudersi ai nostri giorni: non solo nei regimi autocratici, nelle cosiddette “democrazie illiberali”, nelle “democrature”, già consolidate o che si affermano a diverse latitudini, il bavaglio torna a spegnere testate giornalistiche, siti internet, televisioni, radio libere e critiche, e le logiche di dominio della società ispirano i governi ad alzare nuovi muri nel web. Ma si torna a praticare la tortura, il sequestro e l’assassinio, inteso come il più efficace e definitivo sistema censorio. Gli omicidi su commissione di Anna Politkovskaja in Russia, di Ján Kuciak in Slovacchia, di Daphne Caruana Galizia a Malta, lo scempio di Jamal Kashoggi oppositore del regime saudita, sono soltanto alcuni dei moltissimi casi che si possono citare. Non basta. In quella sorta di guerra di tutti contro tutti che pare connotare la conflittualità contemporanea, si pensi alla Siria o alla Libia, i giornalisti indipendenti sono ad altissimo rischio di vita. Parliamo di guerre civili, a bassa intensità, preventive, etniche, religiose, antiterrorismo e asimmetriche e un lessico variegato cerca di definirne le tipologie, ma il comune denominatore è la brutalità senza regole e chi la denuncia è nel mirino dei combattenti. Gli eserciti regolari e irregolari di questi conflitti alzano una cortina fumogena a nascondere i propri crimini e chi vuole dissiparla va eliminato. Anziché alla vagheggiata «morte della censura» assistiamo a un’escalation della violenza contro fotografi e giornalisti che il mondo pre-internet non conosceva. Quali le ragioni? Una è sotto i nostri occhi: la tecnologia del web ha reso i giornalisti più pericolosi perché la circolazione delle informazioni da loro prodotte, siano testi o immagini, è globale e immediata. Un’altra sta nella geografia dei regimi autoritari che avanzano, nella mappa dei conflitti, delle guerre negate o nascoste, dei contesti di crisi politica in atto nel mondo: in tutti questi scenari il controllo totale dell’informazione è un obiettivo strategico fondamentale. Viviamo dunque il paradosso di una rivoluzione tecnologica, che ha reso possibile come non mai in passato l’accesso all’informazione su scala planetaria, gratis e istantaneamente e tuttavia vediamo minati e a rischio quei presupposti di indipendenza e sicurezza che soli sostanziano la libertà di informare e di essere informati.