Il servizio pubblico non può abdicare per soldi al proprio archivio giornalistico, che dagli ani 50 ai 90 è unico ed è stato pagato dal canone

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Scrivere da ex sulla propria azienda è faticoso e non si dovrebbe fare. Ma il dibattito che si sta sviluppando intorno alla serie di Netflix su San Patrignano e l’eco mediatico che ha avuto mi spingono ad alcune considerazioni, alle quali già fa cenno l’articolo di Filippo Vendemmiati, di cui condivido anche le virgole.

La serie è una prima volta per molti aspetti, per uno certamente: utilizza almeno al 90 per cento i materiali girati dalla Rai negli anni 80 e 90, seguendo le vicende che accadevano sulle alture di Coriano e quelle del grande padre padrone della comunità, Vincenzo Muccioli.

Non voglio entrare nel merito del mistero ancora irrisolto di San Patrignano e neppure di come è stato giornalisticamente raccontato, ma del fatto che per almeno dieci anni, forse quindici, lo ha raccontato la Rai, cioè il servizio pubblico, con decine di inviati, di inchieste, di telegiornali, di trasmissioni di informazione, E questo racconto, montato, diluito, spezzettato, è il documentario di Netflix, quindi per la prima volta una azienda concorrente diretta della Rai ha comprato il materiale giornalistico del servizio pubblico per fare cinque puntate di un lavoro palesemente “da servizio pubblico”.

Per molti aspetti può essere l’inizio della fine. Per la Rai intendo. So perfettamente che le teche devono essere anche fonte di ricavo per la Rai, intendendo ricavo esterno e non solo risparmio cui costi di produzione interni. Ma so anche molto bene che esiste un solo pezzo di archivio che non si dovrebbe mai vendere alla concorrenza ed è l’unico di cui la Rai detiene interamente i diritti, è l’archivio della produzione giornalistica. Il resto, spettacolo, varietà, cultura, intrattenimento, musica, è produzione spesso non del tutto in diritti Rai, utile per coproduzioni, da gestire nel rispetto dei diritti da acquisire se ne vale la pena o da contrattare se lo scambio commerciale è interessante.

Ma la produzione giornalistica no, soprattutto quella che parte dagli anni 50 e arriva agli anni 90, quella che insomma ce l’ha solo la Rai perché sul campo non c’erano altri concorrenti. E così è stato finora; Rai Trade prima e Rai Com dopo vendono footage, pezzetti, brevi servizi, che fino ad ora non avevano mai costituito il fulcro del prodotto e la sua quasi totalità. E addolora leggere che il capo di Rai Documentari che sta per cominciare ad avviare le produzioni abbia dell’archivio giornalistico della Rai l’idea che è giusto che sia venduto da Rai Com e pazienza se poi il suo valore va farsi benedire e i concorrenti ci fanno un prodotto di successo che giustamente, la critica giudica anzitutto uno smacco per la Rai.

Alle teche Rai si avvicinano tutti, già in passato la Rai è stata debole con artisti forti come Celentano e Benigni ai quali ha ceduto diritti su materiali di cui non li avevano, ha fatto un accordo con le squadre di calcio che non credo proprio abbia salvato i conti aziendali, privandosi di pezzi pregiati. Dell’allora direttore delle teche, cioè io, ne fu registrata la contrarietà. Ma adesso che ha finalmente un buon prodotto come Rai Play e vuole lanciare Rai Documentari qualcuno in quella azienda deve capire e gestire la cessione del materiale di teca, che non è un tanto al chilo come in salumeria, è storia del paese pagata dai cittadini con il canone. Oltre tutto c’è da anni Rai Cinema, che operazioni al livello di questa di Netflix ne ha fatte eccome – mi viene in mente 1960 di Gabriele Salvatores – coproducendo proprio con le teche Rai. Il materiale di teca, insomma, non può essere gestito solo con un prezzario da parte di Rai COM, è la direzione Teche che deve avere l’ultima parola e giudicare se è opportuno cedere materiale giornalistico unico, esclusivo e totalmente in diritti Rai per un prodotto della concorrenza. E ricordare appunto che, proprio come nel caso di San Patrignano, solo la Rai ha quel materiale e bene farebbe a usarlo per operazioni di ricostruzione storica che è ampiamente in grado di fare.

La vicenda di Netflix è grave e per questo va seguita e ha bisogno di supporto da parte di chi ancora e testardamente vuole salvare il servizio pubblico. E Rai Documentari si renderà conto che se l’azienda non cambia questa politica la prima ad essere danneggiata sarà la sua produzione. Quest’anno saranno 40 anni dal dramma del pozzo di Vermicino, la Rai pensa di cedere quel materiale a qualcuno o di farne la storia e il racconto di come nacque la TV del dolore e la diretta senza limiti di tempo?


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