All’aggettivo riformista sono stati attribuiti, nel corso degli anni, tanti significati, tutti contrastanti fra loro e, per lo più, profondamente insulsi. Emanuele Macaluso ne è stato, invece, un alfiere sincero e coerente, un punto di riferimento per la sinistra nel suo insieme, attento ai rapporti fra comunisti e socialisti persino negli anni dell’aspra contrapposizione fra Craxi e Berlinguer.
Classe 1924, siciliano di Caltanissetta, Macaluso era figlio di una terra agra, difficile per i sindacalisti, per i socialisti, per i comunisti, per chiunque sostenesse le lotte contadine e bracciantili contro la violenza feroce del latifondismo fascista e dei campieri mafiosi, in anni in cui mettersi di traverso rispetto a determinati poteri costava a molti la vita. Era la Sicilia dello strazio, del secessionismo banditesco, della strage di Portella della Ginestra, gli anni in cui Girolamo Li Causi subì un attentato mentre sfidava a Villalba il boss Calogero Vizzini, gli anni in cui lo stesso Macaluso vide e subì ogni sorta di orrore. Era la Sicilia corrotta, mafiosa, arretrata, eppure capace di una grandezza antica, di ospitare il pensiero di straordinari intellettuali, su tutti Leonrdo Sciascia, di cullare i sogni di ribellione di Elio Vittorini, di sopravvivere persino al milazzismo, sostenuto con convinzione dallo stesso Macaluso in nome di un realismo politico che non lo ha mai abbandonato.
In Macaluso si coniugavano cultura, passione civile, impegno politico, lotta per i diritti degli ultimi, gli sfruttati e gli oppressi e il principio del “migliorismo”, ossia del miglioramento dei capisaldi del capitalismo, in contrapposizione con il ripudio totale proprio del comunismo.
Si poteva essere d’accordo o meno ma non se ne poteva certo negare la tempra di combattente, lo spirito battagliero di un sognatore concreto, il desiderio di lottare ancora, fino alla fine, al punto che a novantacinque anni decise di tornare a Portella della Ginestra in occasione della Festa del lavoro, in ricordo del massacro di settantadue anni prima e del clima d’odio contro i comunisti che accomunava i settori più retrivi del mondo cattolico, la mafia e i reduci non pentiti del regime.
Macaluso riteneva che la politica dovesse essere soprattutto battaglia: nobile, pulita, giocata interamente sulle idee, sugli ideali, sui valori, quel confronto aspro che consentiva di volersi bene anche nelle differenze, di restare amici nonostante le divisioni, di stimarsi anche nelle difficoltà di rapporti non sempre facili.
Macaluso era un figlio della povertà, al punto che non aveva potuto realizzare il sogno d frequentare il liceo Classico, in quanto il padre, manovale delle Ferrovie, non se lo poteva permettere, costringendolo a ripiegare sull’Istituto minerario come i fratelli.
Macaluso è stato, al contempo, comunista e libertario, in un contesto, specie in quegli anni, particolarmente rigido e, a tratti, bigotto. Una voce spesso fuori dal coro, controcorrente ma tenace nel rispettare sempre la disciplina di partito, dimostrando saggezza, amore per la causa comune, maturità e rivelandosi uno dei migliori direttori dell’Unità in anni in cui con Berlinguer il dissenso era forte e radicato, specie in merito ai rapporti con il PSI craxiano.
È stato uno dei pochi highlander che non sono riuscito a intervistare: non stava già bene e cortesemente declinò. Ho avuto, tuttavia, l’onore di conoscerlo, di ascoltarlo dal vivo e ancora gli brillavano gli occhi, aveva ancora sete di politica, di vita, d’amore, di coraggio, di impegno, senza mai risparmiarsi.
Macaluso, a Portella, con settantadue primavere in più, rese onore a quella che era stata la sua vita, pronunciando un discorso talmente bello che può essere considerato il suo testamento spirituale. Se n’è andato due giorni prima del centenario del PCI, in una delle fasi storiche peggiori per la politica italiana. E vien quasi da dire che se n’è andato al momento opportuno, prima del disastro definitivo, dopo aver a lungo vissuto, a lungo amato, a lungo lottato, sempre dalla stessa parte, senza mai arrendersi, né ai fascisti né ai mafiosi né al nuovissimo di un tempo senza politica.
Em. Ma., come amava firmarsi, non ha disdegnato neanche i social, a dimostrazione di una curiosità pressoché inesauribile e di una modernità che lo rendeva unico nel suo genere. La sua nota politica quotidiana era sempre in grado di aprire nuovi scenari e di indicare un orizzonte. E io, il più delle volte in dissenso, ero incantato da tanta lucidità d’analisi. Un omaggio alla politica, un grande italiano che ci dice addio, rendendo ancor più amaro il nostro annaspare di oggi.
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