Non è solo paura per quel che accadde a Chernobyl, prima, e a Fukushima, dopo. La rivolta generalizzata contro i 67 siti indicati nella ‘Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee’ come possibili sedi del deposito nazionale delle scorie radioattive nasce soprattutto dal mancato confronto con le sette regioni coinvolte: Piemonte, Toscana, Lazio, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna. Dei 67 siti individuati, ben 24 si trovano al confine tra Toscana e Lazio, 17 tra Puglia e Basilicata, 14 in Sardegna. La rivolta è frutto anche delle iniziative che negli anni passati sono già state prese contro le ipotesi che venivano fatte sulla possibile localizzazione del deposito di stoccaggio. In Sardegna il referendum consultivo aveva dato come esito il 97 per cento di no. Era il 2011. In Basilicata un grande movimento di massa, con proteste in piazza, si era avuto già all’indomani della prima ipotesi fatta nel 2003.
Oggi la protesta trova sfogo nelle parole indignate dei presidenti di Toscana, Puglia, Sicilia, Sardegna, Basilicata, nelle osservazioni critiche del presidente del Piemonte, regione nella quale le otto aree individuate sono suddivise tra le province di Alessandria e Torino. Grosseto, Siena e Viterbo ne condividono 24; Potenza, Matera, Bari e Taranto altre 17; Palermo Trapani e Caltanissetta quattro; Oristano e Cagliari, quattordici.
La rivolta trova fondamento anche nell’idea di sviluppo che ogni territorio ha autonomamente ipotizzato per sé e che sente minacciato da un insediamento che creerebbe preoccupazione e paura con il rischio di allontanare residenti, turisti, imprenditori, investitori.
Neppure le cifre relative ai quantitativi di materiali stoccati determinano un cambiamento d’opinione. Dei 95 mila metri cubi che in previsione saranno accumulati nel deposito, 78 mila saranno di materiali a media e bassa intensità radioattiva (prevalentemente provenienti da ospedali, attività mediche, industrie), 17 mila metri cubi dei residui dell’attività delle centrali nucleari che operarono in Italia fino al 1987.
Turismo, agricoltura, archeologia sono i settori che secondo il parere unanime di tutte le forze politiche delle regioni coinvolte, subirebbero gravi conseguenze dalla collocazione del deposito.
Il governo ha risposto sostenendo che la Carta è solo uno strumento di lavoro su cui riflettere, strumento predisposto ormai da molti anni. La costruzione del deposito costerebbe 900 milioni, coprirebbe un’area di 150 ettari, prevedendo anche il Parco tecnologico che dovrebbe governarlo. La società che dovrebbe realizzarlo, la Sogin, è in grave ritardo sui suoi stessi programmi di lavoro.
Se ai limiti tecnici si aggiunge la forte contrapposizione politica, il progetto sembra già essere morto prima ancora di nascere.