La regina degli scacchi, disponibile su Netflix, è la serie del momento, avendo ottenuto il maggior numero di visualizzazioni di sempre nel primo mese di uscita
La storia, ambientata negli Stati Uniti durante gli anni ’50 e ’60, racconta la vita di Beth Harmon, bambina prodigio degli scacchi. Impara infatti a giocare in un orfanotrofio dove si trova per aver perso la madre in un tragico incidente stradale. Beth è una bambina apparentemente distaccata e malinconica che riesce a legare solo con Jolene, una ragazzina molto irrequieta e con il burbero custode, che le insegna a giocare a scacchi. Ma sono proprio le sue contraddizioni a renderla un personaggio affascinante. Per quasi tutte le puntate, salvo quella finale, Beth viene mostrata come una persona anaffettiva, egoista, che si preoccupa soprattutto della soddisfazione dei suoi bisogni. È una maschera che ha imparato ad indossare fin da piccola per non farsi coinvolgere e quindi soffrire. È infatti evidente quanto la perdita della madre l’abbia condizionata e abbia creato un vuoto emotivo, che Beth riesce a dimenticare solo con alcol e psicofarmaci.
Proprio a questo proposito vale la pena menzionare una delle varie incongruenze narrative che rendono la storia de La regina degli scacchi poco convincente, in particolare mi riferisco al modo in cui Beth entra in contatto con la miracolosa pillola verde. Nell’orfanotrofio infatti ogni giorno vengono distribuite due pillole definite “vitamine”. Una di queste, visti gli effetti che produce, è molto probabile si tratti di uno psicofarmaco contenente benzodiazepine, sostanze usate per gli ansiolitici. Se è vero che negli anni ’50 e ’60 negli Usa ci fu una vasta diffusione di una pillola di questo tipo, usata soprattutto dalle casalinghe, è quasi inverosimile che fosse distribuita (in modo indiscriminato) in un orfanotrofio religioso. Molto più plausibile che sia stata prescritta a bambini con disturbo di deficit di attenzione, che non era certo il caso di Beth, bambina tranquilla e studiosa.
Un altro aspetto poco credibile è la facilità con la quale Beth entra nel mondo degli scacchi, un ambiente notoriamente misogino. Se nel 1983, quando uscì l’omonimo romanzo di Walter Tevis, erano ancora pioneristici gli studi di genere, oggi, a distanza di 37 anni, risulta problematico il fatto che i due creatori della serie, Scott Frank (60 anni) e Allan Scott (81 anni) non abbiano affrontato una riflessione su questo argomento. Per esempio quando l’intervistatrice di Life chiede a Beth “Che effetto fa ad essere una ragazza in mezzo a tutti quegli uomini?” lei risponde: “Non ci faccio caso”. Una frase innocente che invece diventa emblematica. Molte giocatrici di scacchi hanno fatto notare quanto la storia sia poco verosimile, in quanto si tratta di una disciplina ancora oggi elitaria e maschilista. Judit Polgar, una grande campionessa ungherese che ha battuto per anni i migliori giocatori al mondo, ha lodato l’accuratezza delle dinamiche di gioco proposte dalla serie ma ha constatato quanto il rapporto con i colleghi uomini sia diverso nella realtà. Molti durante i tornei la prendevano in giro cercando di sminuirla e c’era anche chi si rifiutava di darle la mano.
La regina degli scacchi è il perfetto prodotto Netflix (miniserie da 7 episodi) ideato per essere consumato compulsivamente e creare dipendenza, in modo che venga sostituito con una nuova serie. Usando una metafora, si potrebbe definire la pillola verde 2.0 dei giorni nostri.