Ho conosciuto Elizabeth Barrett quando ero una ragazzina delle medie, negli anni Sessanta, attraverso una vecchia pellicola in bianco e nero trasmessa in televisione, probabilmente si trattava di “Il grande amore di Elizabeth Barret” con Jennifer Jones e John Gielgud. Raccontava la storia di un amore romantico, ma quei versi ripetuti più volte nel film “Amami per amore”, così io ricordo (quelli che Laura Ricci traduce “Se devi amarmi, nient’altro che per amore sia.”), avevano qualcosa di misterioso perché mi trasmettevano un messaggio, di cui forse non ero pienamente consapevole, ma che era diverso da quello che mi mandavano tanti altri film e storie, che una donna per essere amata doveva prima di tutto essere bella.
Non conoscevo allora la forza di questa poeta, di questa donna che già nel suo diario di quattordicenne diceva di sé: “Sono stata sempre di temperamento deciso direi e, direi violento, anche se compresso …” e che il cugino e letterato J. Kenyon descriveva come “una natura di tigre, facilmente riconoscibile sotto le apparenze di agnello”.
In questi giorni Laura Ricci ci ha consegnato una nuova traduzione dei Sonetti dal portoghese, introdotti dal titolo “Di libertà e d’amore”, due parole chiave per rivisitare la figura e l’opera di Elizabeth Barrett, che in vita ha avuto una larga fama, sostenuta dalle lodi di illustri intellettuali e da entusiastici consensi di pubblico, ma che poi è stata periodicamente dimenticata e riscoperta (Di libertà e d’amore. Elizabeth Barret Browning. Sonetti dal portoghese, Introduzione, cura e traduzione di Laura Ricci, Vita Activa 2020).
Amata ed apprezzata da Emily Dickinson e Virginia Woolf, che le dedica un saggio e Flush, una curiosa biografia attraverso il suo amato cocker spaniel, in anni più recenti è stata valorizzata dagli studi femministi.
Laura Ricci fa precedere i sonetti da un ampio saggio in cui ci fornisce anche un accurato quadro della vicenda biografica, che spesso ha catalizzato l’attenzione del pubblico a scapito della conoscenza dell’opera.
Quando conosce Robert Browning Elizabeth ha già pubblicato con successo una prima raccolta di poesie nel 1838, The Seraphim and Other Poems, una seconda più matura raccolta nel ’44 e il componimento contro lo sfruttamento nel lavoro minorile The Cray of Children, per cui Virginia Woolf la definì una rappresentante di spicco dell’ “età epica della letteratura femminile”. Ha quarant’anni ed è rinchiusa ormai da anni nella casa londinese di Wimpole Street, dove vive nella penombra fra letto e divano a causa di una salute fragile. Grava su di lei inoltre, come sui suoi numerosi fratelli, il divieto paterno di sposarsi. Nonostante la gracilità fisica ha una eccezionale energia psichica e lavora a tempo pieno, considerando compito primario della sua vita la scrittura. È sostenuta da una vasta cultura, che ha accumulato sia attraverso l’educazione impartitale dal precettore del fratello sia attraverso le ampie e libere letture nella ricca biblioteca paterna. Non si limita a scrivere poesie, ma anche articoli critici su riviste e lettere con cui intrattiene rapporti con molti fra i più rappresentativi personaggi della cultura contemporanea.
Sarà proprio una lettera il primo contatto con Browning, che le scrive cogliendo un’allusione a una sua recente raccolta, allusione che Elizabeth aveva inserito in uno dei poemetti del ’44. Nella lettera di Robert, che era più giovane e allora meno noto di lei, traspariva la speranza di un futuro incontro, che avvenne dopo quattro mesi, il 20 maggio del ’45. L’incontro fu preceduto e seguito da un flusso ininterrotto di lettere fino al giorno della fuga in Italia, dopo le nozze segrete, il 19 settembre del ’46. Nonostante la necessità di un bagaglio leggero né Robert né Elizabeth lasciarono a casa le lettere che si erano scambiati, ma Elizabeth portava con sé anche un manoscritto che ancora per tre anni non mostrerà nemmeno al marito: si trattava dei Sonetti dal portoghese.
Nel suo saggio Laura Ricci non manca di sottolineare il lavoro di rinnovamento che la Barrett realizza con questi sonetti, che si staccano decisamente dalle poesie del ’44. Del resto Elizabeth era una pensatrice audace ed è interessante ricordare come, nei primi mesi di corrispondenza col futuro marito, parlando dei suoi progetti circa l’opera che avrebbe realizzato dieci anni dopo, “Aurora Leigh”, scriveva : “Perché dovremmo tornare ai vecchi modelli, o modelli classici, come sono impropriamente chiamati?… Aspiriamo alla Vita, piuttosto; e lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti. Se appena avremo il coraggio di affrontare queste convenzioni, allora ci arricchiremo di forza invece di perderla … perché la poesia è dappertutto”.
Se in Aurora Leigh avrà l’audacia di innalzare una protesta sociale e rivendicazioni femministe in piena epoca vittoriana, suscitando gran successo e scandalo, nei Sonetti dal portoghese affronta la sfida di realizzare un canzoniere d’amore con voce di donna. Per questa impresa non vedeva nel passato modelli femminili, se non quello di Vittoria Colonna che però si discosta dai suoi obiettivi poetici anche perché è volta al rimpianto del marito morto, mentre lei intende cantare un amore vivo nel presente e proiettato ad aspettative future. Grazie alle sue sicure conoscenze, che spaziano da Petrarca agli elisabettiani, alla ballata popolare, E. Barrett decide di inserirsi nella grande tradizione maschile, pur forzandola con la sperimentazione di nuovi schemi narrativi ed espressivi. Per quanto riguarda la forma sceglie il sonetto, non nello schema elisabettiano, ma in quello petrarchesco. Il contenuto delle poesie era già tutto nelle lettere, che lei talvolta cita nei versi. Si sono sollevate diverse questioni sul perché la scrittrice esitasse riguardo la pubblicazione dei sonetti, che Browning invece sostenne da subito e che avvenne nel 1850. Non ci soffermeremo su tali questioni ma, qualunque ne fosse la ragione, la Barrett aveva affrontato con innocente baldanza l’obiettivo di darsi un nuovo linguaggio poetico e di trasformare l’uomo amato in oggetto d’amore, anziché lasciargli quel ruolo di soggetto che storicamente gli era stato attribuito.
I quarantaquattro sonetti sono la cronaca poetica dell’Amore che attacca inaspettatamente la poeta dopo anni di sofferenza e di solitudine, ci racconta la rapida consapevolezza che né mari né tempeste potrebbero separare i due innamorati, ma anche la realtà della loro diversità, i dubbi, la tentazione della rinuncia, la constatazione che nonostante le contrarietà “Eppure è stupendo, stupendo il semplice amore” e ci dice della speranza che anche le personali difficoltà si potranno superare perché “Amore nobilita Natura”. Elizabeth è donna colta e non mancano i riferimenti alla classicità, il gusto di qualche arcaismo e qualche suggestione romantica, ma tutto ciò si intreccia a un timbro alto e tuttavia colloquiale che sembra prevalere, man mano che il suo amore, andando oltre i dubbi e le materiali difficoltà, esplode in un canto sempre più aperto: “Non voglio nascondere un amore da mostrarsi invece a parole”, “Sì amami solo per amore, possa tu amarmi/ sempre di più, amami per l’eternità”.
Se l’amato è visto talvolta come figura dominante, quasi incarnazione del numinoso “… mai un brivido/ di te aver carpito nella candida purezza/ dei gemmati fiori! L’ateo è così stupido,/ che solo se vede Dio ne ha la certezza”, tuttavia la poeta lo affronta anche come persona alla pari: “Quando le nostre due anime erette e forti,/ faccia a faccia, sempre più vicine si attraggono”. Un amore che gioca i giochi dell’amore come i primi baci, come lo scambio delle ciocche, non senza ironia, un amore che li può innalzare fin dove gli angeli li accerchierebbero, ma l’invito di lei è “… restiamo / sulla terra, mio Amato …”. Il lungo monologo d’amore diventa via via più incalzante. La poeta si rivolge con il tu all’amato che viene continuamente invocato, descritto, reso presente con un linguaggio che diventa a tratti realistico e quotidiano sia con accorgimenti formali, come puntini di sospensione e trattini, sia strutturali, come i rimandi che legano a volte due o più sonetti così come accade quando in un flusso interiore ci si interroga e risponde. Possiamo seguire l’approfondirsi e l’affinarsi di un amore che cresce fino alla confidenza “Chiamami con il mio vezzeggiativo!”, fino alla domanda diretta “Ma vuoi tu – darmi il tuo amore?”, fino al voto d’amore “che il nostro amore mai cada fra labbra fredde,/ sconfessato”, per giungere all’espressione del desiderio di un compimento supremo della poeta: “Oh potessi in un’epoca futura/ centrare il senso pieno della vita, esprimerlo,/ mentre la vita passa, nell’amore che dura”. Nell’ultimo sonetto, quello della gratitudine espressa di ricambiare i molti fiori ricevuti dall’amato con i suoi pensieri, gemmati al caldo e al freddo del suo giardino, Elizabeth si autorizza, a due giorni dalle nozze, a nominare non più il suo, ma “ il nostro amore”. Il sentimento è sempre controllato dal rigore della forma e alla autentica poesia di Elizabeth Barrett rese omaggio una poeta come Emily Dickinson che un anno dopo la sua morte si riferì a lei scrivendo : “Silver- perished – with – her Tongue”.
Laura Ricci, scrittrice e poeta, ama cimentarsi nella traduzione. Già nel suo lavoro del 2013 “E io sono una rosa”, in cui aveva tradotto componimenti di poeti del passato sul tema della rosa, aveva espresso la sua idea di traduzione come “amorosa costrizione”, un esercizio di rigore e di libertà dove a costringere sono le strutture formali in cui l’autore ha racchiuso la propria voce, che lei affronta con rispetto e con la creatività di una poeta. Anche di fronte a Elizabeth Barrett si pone da poeta a poeta, convinta della “necessità di un periodico ritradurre” e riuscendo a consegnarci la grande forza espressiva dell’autrice in un linguaggio più vicino alla sensibilità contemporanea.
Chiudono il volume le foto di Casa Guidi a Firenze, oggi casa museo, dove Elizabeth Barrett visse e morì tra le braccia di Robert Browning, uno dei luoghi magici della città.