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Prima “invasori” e poi “untori”. Ecco come sono visti i migranti nell’anno della pandemia

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“Siamo troppo provati e stressati per pensare al dolore degli altri, anche se questo è più doloroso del nostro” . Questa frase mi è stata pronunciata in questi giorni di fine anno da un’ anziana signora mentre mi faceva osservare che non ci si può curare dei diritti negati a chi ė “altro” da noi, soprattuto se straniero migrante,  perché abbiamo altro a cui pensare, troppo presi dalla “nostra” vita stravolta dal virus.
In questa frase è racchiuso quello che l’anno della pandemia ha provocato in molte persone che hanno scoperto per la prima volta di essere vulnerabili di fronte alla Natura. La generazione che non ha vissuto le grandi guerre del 1900 ha dovuto affrontare un mostro subdolo perché senza volto, infido, insinuante e letale. Solo uniti e solidali si poteva combattere ma eravamo troppo impreparati e forse in parte incapaci di totale condivisione e solidarietà. Ci siamo detti che eravamo tutti sulla stessa barca eppure, nello stesso momento in cui si pronunciava questa frase, le barche, vere e metaforiche affondavano con centinaia di persone dentro mentre altri come la signora troppo stressata dalla pandemia si giravano dall’altra parte per non guardare il dolore degli altri. Anzi l’ altro diventava un problema in più: soprattutto se arrivato da lontano. Così nell’anno della pandemia, lo straniero sul barcone o in cammino dai monti dell’Europa dell’est, non è solo un invasore: il migrante nell’anno della pandemia per qualcuno diventa anche un “untore” . Perciò chi  arriva dal mare, in mare rimane: trasferito subito dopo lo sbarco per 15 giorni di quarantena su navi tenute in rada davanti le coste siciliane. Chi arriva via terra, cacciato a suon di botte o rinchiuso in ghetti alle frontiere.  Lontano dagli occhi lontano dal cuore.
Lo straniero migrante però – quando non viene fermato prima o quando non muore durante il tragitto – ha continua a superare i confini della fortezza europea e a vivere accanto a noi. In un modo o nell’altro la persona migrante c’è, esiste, va vista e accolta forse anche con maggiore attenzione rispetto a prima. Proprio perché in un periodo di crisi sanitaria ed economica non si può lasciare indietro chi è più debole: perché lasciare indietro l’altro fa perdere tutti.

Il pontefice Francesco Bergoglio, figlio di emigrati italiani in Argentina, più volte nell’arco di questi dodici mesi ha cercato di far capire che questa pandemia dovrebbe essere uno stimolo per entrare in empatia con chi la sofferenza se la porta dietro da sempre, per far capire che “Nessuno si salva da solo” . E forse le immagini che più rappresentano quello che è accaduto nell’anno della pandemia sono quelle delle lunghe code davanti ai centri Caritas dove per la prima volta, il numero degli italiani in attesa di un pasto e di generi di prima necessità ha superato quello degli stranieri. In fila insieme senza che nessuno reclami perché davanti a lui c’è un uomo che parla una lingua diversa o con pelle più ambrata della sua. Perché chi sale sulla stessa vecchia barca che rischia di affondare, rema insieme agli altri.


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