No al delirio di gelosia

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Qualche giorno fa la Corte d’Assise di Brescia ha assolto per vizio totale di mente Antonio Gozzini, un anziano che l’anno scorso uccise e poi vegliò per ore la moglie Cristina Maioli, insegnante di scuola superiore.

E fin qui nulla di nuovo sotto al sole, perché è previsto dal codice di procedura penale che l’imputato non sia imputabile se non è capace di intendere e di volere quando commette un reato.

Stride però che la PM Claudia Passalacqua abbia concluso invece con l’ergastolo per omicidio volontario e addirittura con le aggravanti della premeditazione, della crudeltà e ovviamente del vincolo coniugale.

Altrettanto inusuale è la nota chiarificatrice che il Tribunale di Brescia ha ritenuto di emanare dopo le comprensibili proteste pubbliche che la sentenza ha suscitato, a tal punto da provocare l’invio degli ispettori dal Ministero della Giustizia per gli accertamenti sul caso.

 «In attesa della stesura della motivazione della sentenza, serve tenere doverosamente distinti i profili del movente di gelosia, dal delirio di gelosia, quale situazione patologica da cui consegue una radicale disconnessione dalla realtà, tale da comportare uno stato di infermità che esclude, in ragione elementare principio di civiltà giuridica, l’imputabilità» si legge nella citata comunicazione del tribunale.

L’imputato quindi sarebbe stato prosciolto perché ritenuto «incapace di intendere e volere» a causa di una patologia psichiatrica, ma alcune considerazioni questa vicenda le merita, perché forse si dimentica che di parole sono fatte le sentenze e con le parole si esercita la giustizia.

Non può scandalizzarsi –  alcuni addirittura addetti ai lavori – chi pensa che fare commenti senza leggere le motivazioni della decisione sia strumentale e inutilmente polemico, perchè esiste un sacrosanto diritto costituzionale che è quello della libera espressione del proprio pensiero, e soprattutto perché qui non si discute una sentenza che non si conosce, ma si vuole allarmare contro l’ennesimo, grave e pericoloso messaggio giudiziario che scaturisce da questa triste storia.

Non è il periodo storico adatto per non prestare attenzione quando si comunica alla gente comune che di quello che legge si fa un’opinione logica normale e non accademica, e dovrebbe altresì essere noto a tutti, ad alcuni invero più che ad altri, che la violenza sulle donne è una vera e propria emergenza sociale.

È quindi a dir poco inammissibile il messaggio mediatico di un proscioglimento per delirio di gelosia, perché arriva pubblicamente l’informazione che un “delirio” possa esonerare chi uccide la moglie e che addirittura la “gelosia” sia un movente scusabile.

E non è una conclusione polemica e banale, perché chiunque per strada venga richiesto di spiegare “proscioglimento per delirio di gelosia”, risponde che l’omicida è stato assolto perché è stato preso da  un “raptus” motivato dal senso di possesso e di appartenenza della vittima.

Non ci siamo, e soprattutto non ci stiamo alla quotidiana crescente incuria istituzionale al fenomeno violento.

Da un lato le vittime non vengono credute e sono costrette a sottostare alle investigazioni più assurde, attente ad ogni singola parola che pronunciano, perché ogni piccola esitazione, ogni dubbio, ogni debolezza potrà ritorcersi contro e fondare la costruzione del muro dell’inattendibilità, eretto il quale l’archiviazione prima e l’assoluzione poi sono dietro l’angolo.

Dall’altro mentre l’attenzione investigativa si concentra sul modus vivendi della vittima, la comprensione “umano giuridica” volge  sempre a favore della persona del colpevole, e non si comprende o non si vuole comprendere che alla diffusione di messaggi giudiziari così disattenti, in aggiunta ad un’informazione mediatica che fa uso incontenibile di termini come raptus, amore negato e tempesta emotiva, deriva una visione superficiale e distorta di un problema di contro così grave, soprattutto a chi lo vive in prima persona.

 
Si legge che “ in un delirio di gelosia  il soggetto  soffre di una condizione in qualche modo pregiudiziale di conoscenza e di raggiungimento della verità a prescindere dai dati di realtà. Il “delirio di gelosia”, in particolare, è una condizione per cui, chi ne soffre, ritiene in maniera incrollabile e non criticabile che il proprio partner abbia dei comportamenti di tipo fedifrago e tutto questo viene supportato da qualunque elemento di realtà, che viene letto o in funzione di questa condizione pregiudiziale, oppure viene scartato. È una condizione molto diffusa, per esempio, tra gli alcolisti cronici”.

Ne consegue che oggi chiunque può legittimamente e logicamente presumere che l’idea fissa, irreale ed acritica che la propria compagna lo tradisca determini un delirio di gelosia e lo possa fare assolvere da un omicidio.

Questo è oggi il comune pensiero di chi ha letto i titoli dei giornali e le spiegazioni degli ” esperti” dei giorni scorsi e questo è il verosimile pericolo di una sentenza “definita” come quella di Brescia.

Non è una polemica femminista, come qualcuno comodamente vuole liquidare, ma l’indignazione di chi ogni giorno è costretto a camminare lungo gli scivolosi percorsi delle denunce, degli interrogatori, degli esami e dei controesami come persone offese, delle testimonianze di chi ha visto la vittima comportarsi in tal modo con il vicino, o vestita in tal altro modo la sera mentre camminava da sola di notte per strada.

E di chi mentre procede tentando di non cadere nel fallimento di un procedimento penale, assiste all’uso distratto e inaccurato di parole come “delirio” e “gelosia”, e purtroppo ad un inaccettabile condizionamento sub culturale che dovrebbe invece essere combattuto in prima istanza nelle aule di giustizia.

E di chi infine subisce spesso impotente gli automatismi giudiziari nei quali le decisioni di maggior rilievo vengono delegate a consulenti tecnici, psichiatri o psicologi, ciascuno con una propria scienza e con una personale teoria che viene trasfusa de plano nella sentenza, senza alcuna possibilità difensiva.

Ma il diritto è altro dalla scienza, per fortuna.

Può farvi ricorso, ma il diritto è umano e deve essere sempre e solo finalizzato alla giustizia, e non alla certezza scientifica, considerato che di frequente quest’ultima sfugge all’umano sapere.

Una preghiera infine: contro queste considerazioni non si invochi la civiltà giuridica e non si richiamino le barbarie ideologiche di chi reclama una condanna esemplare, perché non è questo il reale fondamento di tanto sdegno.

La civiltà sociale si costruisce a partire dalla giustizia, le cui parole e la cui diffusione comunicativa sono elementi costitutivi per una continua – e quanto mai oggi necessaria – educazione collettiva alla legalità e per l’effettiva funzione general – preventiva del sistema giuridico.

Il giudice deve essere consapevole che è la “personificazione del diritto”  e che “solo dalla sua persona la vittima può attendersi nella vita pratica quella tutela che in astratto la legge promette”.

Solo se il giudice ” saprà pronunciare a favore della parola della giustizia, ci si potrà accorgere che il diritto non è un’ombra vana”.

E non sono le parole di chi scrive, ma di Pietro Calamandrei.


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