C’ė una bella e simbolica notizia che arriva alla vigilia della giornata internazionale del migrante istituita dall’Onu nel 2000: quella della liberazione dei 18 pescatori della flotta di Mazara del Vallo dopo 108 giorni di fermo in Cirenaica. Sono otto italiani e 10 stranieri, tra tunisini e senegalesi: sono cristiani e musulmani, insieme a faticare per portare sulle nostre tavole il pesce più buono del Mediterraneo.
Chi ha ascoltato con attenzione le urla di gioia delle donne in presidio permanente nell’aula consiliare del comune, si sarà accorto di quel misto di acuti nostrani e di rumori allo schioccar di lingua che somiglia ad un ululato: è quello che con parola onomatopeica viene chiamato zagroutah, un suono che rappresenta la gioia incontenibile per un lieto evento emesso dalle donne arabe mediorientali e africane ma che prima di loro usavano già gli antichi greci.
Succede così a Mazara del Vallo, una delle tante realtà siciliane in cui l’integrazione è avvenuta senza snaturare l’identità dei popoli che hanno accolto così come di quelli che si sono insediati sul territorio. Non è stato e non è facile ma i pescatori della flotta Mazara sono uno degli esempi più riusciti di collaborazione per la realizzazione di un bene comune: una crescita economica e sociale dove l’immigrato è una risorsa per la sua famiglia e per la comunità. Ed è bellissimo poter gioire per una stessa causa, seppure in modo diverso, come ci viene insegnato per nascita e per cultura. Per questo quel melting pot di entusiasmo urlato e ululato è un simbolo di ciò che portano di buono le migrazioni, movimenti perenni da un paese all’altro in cui si mescolano le carte delle vite di chi per necessità affronta il viaggio e di chi per necessità si trova ad accogliere. Movimenti che nessuno è riuscito nei secoli a fermare perché sono parte della storia dei popoli costretti ciclicamente alla fuga da guerre o semplicemente da miseria, carestie o epidemie come quelle che, nell’anno del Covid-19, stiamo vivendo sulla nostra stessa pelle e che in paesi molto più poveri dei nostri sono cose già vissute e patite. Basti pensare al colera o all’ebola.
Al grido transnazionale di gioia per un rientro tanto atteso, si contrappone però l’urlo disperato di una mamma giovanissima che perde il suo bambino nel naufragio avvenuto lo scorso 11 novembre nello stesso mare solcato dai pescherecci dei nostri pescatori italiani, tunisini e senegalesi. “I lost my baby” è il grido straziante di Aja, giovanissima mamma migrante che ha perduto in mare il figlio di sei mesi. Ritrovato ancora vivo, il piccolo Yussouf lascerà questa vita per sempre dopo aver atteso per sei ore i soccorsi chiesti in emergenza dalla nave umanitaria che riesce a salvare circa 100 persone. Quattro i corpi senza vita a cui poi si aggiunge anche quello del bambino morto a bordo.
Il pianto della mamma mentre il suo piccolo viene seppellito dentro una piccola bara bianca, è in perfetta antitesi dei principi sanciti nella Carta dei Diritti Umani del 1948 siglata da mezzo mondo. Quella mamma e il suo bambino in realtà sono migliaia di Aja e Yussouf , migranti ai quali i diritti oggi più che mai vengono negati. Sono milioni le persone che ogni anno si muovono affidandosi a spietati trafficanti, che muoiono durante il viaggio, che vengono respinti ai confini, che vengono lasciati come ombre nelle nostre città.
E se il rientro dei pescatori di Mazara dopo 108 giorni di ingiusta detenzione è in un certo qual modo un successo di intelligence e diplomazia, dall’altra le lacrime di Aja sono il simbolo di un fallimento per tutti paesi che hanno aderito ai principi cardine della Carta dei Diritti Umani. Principi che non si possono togliere alla persona migrante solo perché nata nel posto sbagliato.