Imboccando una minuscola traversa a ridosso dei Pier di San Francisco puoi ancora trovare un negozio che propone biciclette in affitto sotto un cartello geniale : “Rosebud was a bike”. Rosebud era una bicicletta, non una slitta, come nell’ultima, rivelatrice inquadratura di “Citizen Kane”, da molti considerato il più grande film di sempre. La strizzata d’occhio cinefila si estende all’insegna del negozietto : “Citizen Chain”. E’ un caso di marketing colto e subliminale, ma è vero che l’opera prima di Orson Welles, da noi “Quarto Potere”, a ottant’anni di distanza conserva radici profonde nella cultura popolare.
Sarà impossibile per i prossimi Oscar – di data e natura sommamente incerta – ignorare il “Mank” di David Fincher targato Netflix , anche se le grandi platee mondiali dell’era Covid avranno potuto assaporare solo via piattaforma questo sontuoso monumento a un cult movie che è anche una icona pop. L’operazione è grandiosa non solo perché ‘veste’ la stessa estetica del capolavoro di Welles, col suo fulgido bianco e nero, ma perché scava nei retroscena oscuri di uno script incentrato- spudoratamente e coraggiosamente- sull’irresistibile ascesa e sul potere ramificato di un miliardario che aveva orientato i destini d’America ben più a lungo di Trump, William Randolph Hearst.
Anche “Mank”, proprio come “Citizen Kane”, è meno un biopic che un film sul Potere. Concentrandosi sul ruolo determinante di Herman J. Mankiewicz, che condivise con Orson Welles l’Oscar per la Sceneggiatura a “Citizen Kane”nel 1941, racconta in realtà il cinismo profondo, gli interessi politici e le dinamiche della Fabbrica dei Sogni che hanno segretamente alimentato l’opera , in quegli anni ’30 in cui la scritta che dominava gli Studios era ancora, nella sua versione originaria,“Hollywoodland”.
In forma di flashback- introdotti da titoletti da script professionale tipo “Ext.Paramount Studios- Day- 1930 (Flashback)”- il film di Fincher illumina su brandelli di Storia, episodi e vicende ignoti ai più, spesso curiosamente affini a vicende del nostro presente. Come quando Louis B.Mayer persuade senza ombra di scrupolo i dipendenti della Metro Goldwyn Mayer ad accettare stipendi dimezzati, e fuori scena commenta : “Ho recitato bene ?”. Un grande network di casa nostra ha fatto la stessa cosa – paghe ridotte del 40 % ad personam- invocando la pandemia. E nessun film aveva mai raccontato i cinegiornali di fake news confezionati dalla MGM per boicottare la campagna elettorale di Upton Sinclair, lo scrittore candidato Governatore per la California nel 1934. Il suo programma di lotta alla povertà terrorizzava l’establishment esattamente come oggi il ‘sovversivo’ Bernie Sanders.
Fincher lavora su una sceneggiatura del padre, rimasta nel cassetto, e abbraccia la tesi di Pauline Kael, la critica del “New Yorker”che in un saggio del 1971 (‘Raising Kane’) attribuiva al genio misconosciuto di Mankiewitz ( fratello maggiore del più celebre Joseph di “Cleopatra”) l’intero merito della scrittura di “Quarto Potere”, ultimata, secondo la mitologia, in 60 giorni appena. Gary Oldman è un Mank da annali, caustico, disincantato, immobilizzato in un cottage per via di una gamba ingessata col solo conforto dell’alcool, di un’infermiera e di una stenografa inglese (Lily Collins, la protagonista di “Emily in Paris”).
Molti critici, non solo Usa, borbottano per la detronizzazione di Orson Welles- allora ‘ragazzo prodigio’ della RKO, appena ventiquattrenne ma rampantissimo- compiuta dal film. La disputa continuerà, ma è materia da cultori. Mank però frequentava davvero l’entourage di Hearst (un inquietante Charles Dance per Fincher ), supporter e finanziatore di Mayer in tempi di crisi, ed era davvero amico della sua amante Marion Davies ( l’attricetta deliziosamente stilizzata da Amanda Seyfried) che nello script diventerà la cantante Susan, tanto sponsorizzata quanto incapace.
La forza di “Mank”sta proprio nella sofisticatissima ricostruzione del nesso tra la realtà dei rapporti umani, economici, professionali e politici , tra la vita, in breve, e le idee, la scrittura. Non è il filmmaking che conta, ma la sua genesi, gli scrupoli di un intellettuale che mette in gioco vita vissuta, l’esperienza sedimentata nelle ‘scuderie’di sceneggiatura falcidiate dalla Grande Depressione, i ricatti subiti, il senso di colpa per i compagni di lavoro costretti a lavorare contro coscienza e per questo suicidi . “Quarto Potere” è tutt’altro che un film di sola sceneggiatura, ma questo terreno di coltura è affascinante.
Se sfidi un capolavoro, devi misurarti alla pari. La provocazione di Fincher funziona per l’ambizione che la anima. Le atmosfere ricreate dalla fotografia di Erik Messershmidt, il caos degli Studios e la lugubre reggia di San Simeon ( che diventerà la Xanadu di Welles ) evocano splendori funerei degni di “Sunset Boulevard”. Battute e dialoghi – che sia un limite del film, per il grande pubblico mainstream ? – sono così densi da intimidire.
Lo dico per chi si erge a paladino della piena paternità di Welles : non è un referendum, nessuno è chiamato a schierarsi pro o contro il genio del Maestro. Se Fincher ce lo rende poco simpatico, l’immagine che si ricavava, fuori finzione, dalla sua lunga intervista a Dennis Hopper del 1970, riesumata per l’ultima Mostra di Venezia, era ben più irritante. Si guardi e si giudichi il film, che è merce fuoriclasse. Quanto può maturare ancora il talento di un regista che non vive della gloria di “Seven” o di “Fight Club”, che è passato per la serialità di “House of Cards”e di “Mindhunter”senza vendere l’anima e senza abbassare la guardia ?
Le piattaforme hanno la forza economica per risucchiare i talenti, ma non uccidono il cinema. Possono finanziare progetti in apparenza fuori mercato. “Roma”di Alfonso Cuaròn era Netflix, come “Mank”in quel bianco e nero che ‘non fa botteghino’, e dopo il Leone d’oro ha vinto tre Oscar. Non è tempo di alzare scudi, ma di inventare nuove regole per un mondo che non sarà mai più come prima.