L’immaginario popolare nel mito di Maradona

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Può apparire paradossale, ma Maradona ormai quasi non c’entra nulla. E nemmeno Napoli, suo referente nostrano. L’idolatria di massa, la corsa agli eccessi iperbolici (non privi di qualche strappo isterico), il dolore comprensibile, condiviso, eppure sovrastato da furibondi litigi per l’eredità milionaria, fatale materializzazione dell’esuberanza di sentimentalismi vari, i macabri strascichi giudiziari sulle responsabilità della morte: tutto riconduce a valori e abitudini del nostro comune sentire, alle sensibilità della società in cui viviamo e che a lungo ha applaudito il grande campione appena scomparso, spericolato funambolo nella quotidianità d’ogni giorno e d’ogni ora non meno che sui campi di calcio. Accade: non è certo la prima volta che il simbolo viene soverchiato dai simbolismi.

Maradona è una ragione strumentale. Egli è essenzialmente lo specchio che trattiene lo sguardo di chi guarda nella speranza di veder rivelato il mistero dell’eccezionalità, la sua forza di attrazione come possibile fuga dalla normalità che ci insidia. Il fenomeno vero accade tra lo stato d’animo e quello mentale delle centinaia di milioni persone che riflettendovisi lo rendono manifesto. Confermando così una volta ancora l’intuizione di Freud sul principio del piacere, che alternativamente e in competizione con quello autodistruttivo -Eros vs. Thanatos-, guidano l’istinto umano. Diego Armando, el pibe de oro, ne è stato un esempio tanto compiuto quanto sofferto e adesso universalmente commemorato da questo transfert di massa un po’ autentico, un po’ d’imitazione.

E’ la gigantografia della contraddizione assai diffusa e da lui tanto clamorosamente incarnata (altruismo ed egoismo, eleganza e volgarità, intelligenza e ottusa superficialità: virtù e vizi) a innescare e far esplodere l’indignazione delle donne che vi intravvedono se non l’infamia del ricorrente maltrattamento oltraggioso verso il sesso femminile, il suo metterla in secondo piano. Nascosta, in questo caso, dietro l’ammirato stupore per un’acrobatica chilena o per la magia d’un fraudolento colpo di testa destinato a decidere le sorti d’un mondiale di futbol. C’è insomma un sospetto di colpevole leggerezza (non quella enigmatica di Milan Kundera), così come per tutti quei “grazie” che fioriscono gratis sui social-media subito appassiti dagli insulti e violenze verbali d’ogni genere che vi dilagano.

Sono gli stessi “grazie” postumi stampati ed esibiti con il volto di Maradona moltiplicato per chissà quanti minischermi cellulari, dai vicoli meno nobili e forse neppure così innocenti di Napoli a quelli della Boca di Buenos Aires. In cui la riconoscenza sembra più declamata che sentita. Possibilmente eco non del tutto consapevole di una libertà talvolta praticata come gelidi libertinismo e pura affermazione della propria singola individualità. Con la compassione che sconfina in compiacenza, in nome -tra i più avvertiti- del diritto a prendersi una pausa-caffè per interrompere le pesanti tensioni a cui siamo sottoposti tutti nel susseguirsi e sommarsi delle crisi e pandemie che come perverse idrovore pompano ansie nelle nostre giornate.

Non meno evidente si presenta pertanto il rischio di moralismo insito in questi richiami agli aspetti più squillanti e meno convincenti nelle esequie del fuori classe scomparso. Il mito appare come un’ineludibile ricorrenza nella storia della nostra cultura e Diego Armando Maradona è stato e rimane uno di questi, replicato dalla popolarità del calcio che lo ha assunto nella veste di massimo eroe. Al mito, inoltre, sappiamo che corrisponde il rito. La necessità di esorcizzare il dolore e rassicurarci nel nostro onore. La vastità dell’emozione suscitata dalla sua scomparsa -attesa e nondimeno repentina- non è in discussione. Ma nelle sue molte pieghe non risulta del tutto inutile mettere il dito su qualcuna delle sue piaghe. Quanto meno per rammentarci che se nella sua manifestazione il dolore supera il principio di realtà, perde credibilità e valore. Non persegue la sua essenziale funzione.


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