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La vertigine della memoria. ‘Altre inquisizioni’ e ‘L’artefice’ di Jorge Luis Borges

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Al vertice della produzione letteraria del poeta e novelliere argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) vanno probabilmente ascritti gli straordinari racconti “alluvionati di metafisica” di Finzioni (suddivisi nelle due sezioni Il giardino dei sentieri che si biforcano [1941] e Artifici [1944]), vergati tutti in una prosa smagliante, puntigliosa, sorvegliatissima, dal peso specifico virtualmente insostenibile: una prova replicata con esiti quasi altrettanto eccezionali nella successiva raccolta L’aleph (1949).

Borges è scrittore di lucidità vertiginosa; desta sempre, nei racconti come nelle poesie (e perfino nei saggi critici), l’impressione di condurre il lettore fin sulle soglie della verità: quel limite – o quell’istante fatidico – nel quale il velo che copre il mondo sembra sul punto di dissolversi. Nelle sue densissime pagine non è mai assente la meditazione sulle sorti ultime dell’uomo (entità sconosciuta a se stessa) e sulla funzione decisiva a cui l’arte assolve nell’economia della sua esistenza. Lo scrittore è consapevole del carattere impersonale, quindi metafisico e arcano, di qualsiasi ispirazione:

“Ogni poesia è misteriosa; nessuno sa fino in fondo che cosa gli è stato concesso di scrivere.”

Inesausto pellegrino nelle terre senza confini della letteratura, delle quali possedeva una conoscenza pressoché enciclopedica, l’autore non rappresenta un sublime modello di umiltà (“Altri si vantino delle pagine che hanno scritto; io sono orgoglioso di quelle che ho letto”) più di quanto incarni, sul piano umano prima che intellettuale, una riflessione profonda, abissale sul destino proprio e dell’universo, smarriti entrambi “nell’errante fiume del tempo”.

Borges (che è anche un personaggio fra i tanti delle sue pagine) era conscio del proprio valore; non negava di aver “dato vita ad alcune pagine valide”, ma sapeva anche che “ciò che c’è di buono nel mondo non appartiene a nessuno”: nel contesto della comune, risibile esperienza umana l’ambizione letteraria non ha motivo di inorgoglire l’animo di chi la coltiva: “Che cosa morrà con me quand’io morrò, quale forma patetica o effimera perderà il mondo?”. E la stessa gloria, cui tanti insulsamente anelano, cos’è infine, se non ”una delle forme dell’oblio”? In Borges, il culto dei libri, la venerazione incrollabile per la letteratura, l’arte e le avventure del pensiero convivono a fianco della misurata dignitosa consapevolezza dei loro limiti: “Non mi salverò io, fortuita cosa / di tempo, ch’è materia fuggitiva”.

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Oltre che novelliere impareggiabile, Borges fu anche sublime poeta, ed è appunto alla miscellanea L’artefice (1960), raccolta di 24 brani in prosa e 29 poesie – testo esemplare se mai altri – che l’autore ha affidato un saggio completo delle sue doti artistiche. Forse il libro dal quale conviene partire per avvicinarsi a un autore tanto particolare e complesso.

Il testo che introduce la raccolta si intitola, appunto, L’artefice: un uomo che, finché aveva goduto del bene della vista, “non s’era mai attardato nei piaceri della memoria”:“ Le impressioni scorrevano su di lui, momentanee e vivide”. Era stato un uomo abituato a vivere nel presente; divenuto cieco (al pari del suo creatore letterario), disceso nella vertigine obbligata della memoria, che per la prima volta “gli parve interminabile”, riuscì a trarne i ricordi apparentemente perduti, che brillavano “come una moneta sotto la pioggia”: una rivelazione inaspettata che si sarebbe protratta fino a quando non fosse disceso, come ognuno di noi, “nell’ultima ombra”.

Prescindendo dagli occasionali spunti autobiografici, i temi trattati nell’affascinante miscellanea sono quelli che ricorrono con periodica puntualità in tutta la sua ampia opera: la memoria e la cecità; il piacere ineffabile dell’interpolazione; la vita quotidiana trasposta su un piano metafisico; la frantumazione dell’io e l’enigma dell’identità; le presunte confessioni, dove la verità si confonde con l’invenzione al punto di rendere indistinguibili i due fenomeni; il labirinto, gli specchi, l’unanimità del tempo, il sogno incomprensibile e insieme rivelatore…:l’attrazione, insomma, per tutto ciò che sembra divergere dalla realtà. Borges menziona, allude, rifugge dall’asserzione netta nel suo stile sottile e inesorabile, ma sfuggente, che raramente abdica a un tenace distacco, che non è però ancora freddezza: una scrittura estremamente vigile, nella quale si sviluppano inattesi, perciò tanto più efficaci, impulsi lirici.

Ne L’artefice, i temi trattati sono oltremodo vari, ricollegandosi a epoche storiche e terre diverse e lontanissime fra loro, per quanto possano essere ricondotti tutti a un medesimo nucleo d’ispirazione e finiscano per comporre un quadro complessivo estremamente organico. Borges vi propone, per es., un singolare Argomentum ornithologicum, che inerisce alla dimostrazione, o almeno alla confutazione-virtualmente equivalenti – dell’esistenza di Dio; illustra la vicenda di un ragazzo indio scomparso durante una razzia e di “quell’istante di vertigine in cui”, uomo ormai, e dimentico della sua vita precedente, ricondotto al paese natale, in un soprassalto vertiginoso della memoria, “il passato e il presente si confusero”; o ambigue storie di impostura e superstizione nell’Argentina populista degli invisi Perón ed Evita Duarte; il saluto reverente, solenne e insieme implacabile rivolto da un re al sovrano nemico, alla vigilia di una battaglia medievale in terra d’Irlanda; una Quartina nella quale è delineata la sgomentevole (in)evitabilità della morte; oppure la meditazione sulle proprie origini: i Borges: “vaga gente / ch’entro di me prosegue, oscuramente / i suoi costumi, rigori e tremori”; o ancora, gli episodi (amorosi?) struggenti e pensosi; i colloqui con persone che nel mondo della veglia sono morti da anni; il singolare rimpianto di Eraclito, che scavalca l’abisso di intere epoche storiche.

Borges si inoltra sui sentieri della trascendenza con estremo rigore intellettuale e incrollabile scetticismo (“E’ più facile morire per una religione che viverla assolutamente”); racconta storie di uomini indifferentemente illustri o oscuri (come oscuro stima se stesso), trascritte, sempre, sapendo che le folle dei giocatori schierati intorno alla scacchiera del mondo tutti “li ridurrà in polvere il tempo”.

L’essenziale miscellanea, che appunto un’entità suprema, “il tempo” – e non Borges – “ha compilata”, costituisce la prova forse più personale e intima dell’autore se, come recita la chiusa memorabile, l’uomo che “si propone il compito di disegnare il mondo, […], poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto.”

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Ingegno eclettico, Borges si illustrò nei più svariati generi; e vale certamente la pena accennare, per quanto indegnamente, alla sua singolarissima attività di critico letterario attraverso la sua opera più matura in tale ambito: Altre inquisizioni (1960), raccolta di saggi a mezza strada fra la critica letteraria e il conte philosophique su autori vari, celeberrimi e meno noti, fra i quali ricorderemo almeno, “biblioteca illusoria”, Blaise Pascal, Samuel Taylor Coleridge, Miguel de Cervantes, Nathaniel Hawthorne, Paul Valéry, Oscar Wilde, Gilbert Keith Chesterton, H. G. Wells, John Donne, Franz Kafka, John Keats, George Bernard Shaw.

Come sempre con Borges, anche nel caso di queste straordinarie meditazioni sulla letteratura e sull’arte (ma non solo), nel leggere il libro è obbligatorio dimenticarsi di tutto ciò che sia stato scritto da mano umana fino a quel momento.

Scettico sotto ogni altro riguardo, Borges coltiva una vocazione artistica senza confronti, che lo porta a passare tutte le manifestazioni dello spirito umano al vaglio di un fermo inesorabile giudizio estetico. Il primo saggio analizza significativamente la due “vaste imprese” del Primo Imperatore Shi Huang Ti (non ricade quindi propriamente nella categoria della critica letteraria): “l’edificazione della quasi infinita muraglia cinese” e l’ordine di dare “alle fiamme tutti i libri scritti prima di lui”“le cinque o seicento leghe di pietra opposte ai barbari, la rigorosa abolizione della Storia, cioè del passato”: in buona sostanza, l’ordine che “la storia cominciasse con lui.” Ma forse, più semplicemente, quell’antico sovrano “volle abolire tutto il passato per cancellare un solo ricordo: un’infamia di sua madre.” Neanche qui, nell’attività di critico, vien meno nell’autore la sua inclinazione di artista, per il quale la distinzione fra racconto e saggio è estremamente labile, felicemente gratuita. La meditazione sulla dimensione nella quale si svolge la nostra vita dalla dimensione-tempo si estende alla dimensione-spazio, anche mediante citazioni rare (talora inventate, con genio non inferiore alla disinvoltura): “Dio è una sfera intelligibile, il cui centro sta dappertutto e la cui circonferenza in nessun luogo.” (Ermete Trismegisto?) E altrove: “Se ogni essere si trova alla stessa distanza dall’infinito e dall’infinitesimale, non ci sarà neppure un dove.”

Si alternano e si richiamano all’interno di questo libro, come di ogni altro dell’autore, le riflessioni sul tempo e il pensiero, il pensiero e lo spazio: “Il vero intellettuale rifugge dai dibattiti contemporanei: la realtà è sempre anacronistica.”“È arrischiato pensare che una coordinazione di parole (altra cosa non sono le filosofie) possa rassomigliare all’universo.”

Una citazione, in particolare, fra le numerosissime prodigate, appare illuminante della concezione letteraria propria di Borges: “La storia della letteratura non dovrebbe essere la storia degli autori e degli accidenti della loro carriera o della carriera delle loro opere, ma la Storia dello Spirito come produttore o consumatore di letteratura. Una simile storia potrebbe essere condotta a termine senza menzionare un solo scrittore.” (Paul Valéry)

Come si sarà compreso, anche la riflessione teologica impegna il nostro autore – sebbene il suo studio presenti l’inconveniente di essere spesso interrotto dalla felicità. Non deve peraltro stupire che egli non fosse, a quanto è dato sapere, credente. L’esistenza o meno di Dio appare a Borges una questione puramente accessoria, mero pretesto; piuttosto, gli interessa considerare il fenomeno per cui – e qui si riallaccia a John Stuart Mill – “a un’intelligenza infinita basterebbe la conoscenza perfetta di un solo istante per conoscere la storia dell’universo, passata e futura.” Parlando di un famoso autore arabo, Borges asserisce che “è ateo, ma sa interpretare in modo ortodosso i più ardui passi del Corano, poiché ogni uomo colto è un teologo, e per esserlo non è indispensabile la fede.” Difficile, in ogni caso, districarsi in quel confuso brogliaccio che è la dimensione nella quale noi – forse – viviamo: “Il mondo è l’abbozzo rudimentale di un dio infantile che lo abbandonò a metà dell’opera, vergognandosi della sua esecuzione deficiente; è fattura di un dio subalterno…”

Non mancano intuizioni critiche degne di ulteriore successivo sviluppo: per es. quella che in una “breve e abietta parabola” di Hawthorne (il singolare racconto Wakefield) sia già prefigurato inconsciamente Franz Kafka; e che appunto “un grande scrittore crea i suoi precursori”. Tutto, insomma, converge verso uno stesso punto, nel quale si rivela e consuma l’illusorietà dell’identità personale e dello stesso divenire, confermata dall’abissale, calzante citazione da Oscar Wilde: “Non c’è uomo che non sia, in ogni momento, ciò ch’è stato e ciò che sarà.” Riguardo allo stesso Shakespeare, forse il maggiore genio letterario della storia umana, non esita a riportare le parole fondamentali di Hazlitt: “Shakespeare somigliava a tutti gli uomini, tranne in ciò, che somigliava a tutti gli uomini. Intimamente non era nulla, ma era stato tutto ciò che sono gli altri, o ciò che possono essere.” Come insegna il Rabbi Dov Ber di Mezeritch (uno dei maggiori esponenti del chassidismo), “la parola io può essere pronunciata solo da Dio.”

Il freno dell’ironia non occulta un sostanziale, commosso umanesimo capace di riscattare nel mentre che confuta, e di celebrare, con spirito fortemente antiromantico, la dignità di questo o quel personaggio, questo o quell’autore. Talvolta, è vero, Borges si richiama a leggende, ma solo perché “la leggenda ricrea la realtà in un modo che solo accidentalmente è falso.”

Per il suo gusto dell’astrazione, i grandi scrittori presi in esame acquisiscono dimensioni simboliche, eterne, esemplari; sono qualcosa di più, e insieme qualcosa di meno, rispetto a se stessi: altrettante chiavi intese a sondare – non mai a sciogliere – l’enigma labirintico dell’esistenza. Questo, naturalmente, nel ripudio di ogni facile didascalismo: parlando del primo Wells, Borges scriverà: “L’opera che perdura è capace di un’infinita e plastica ambiguità; è tutto per tutti, come l’Apostolo; è uno specchio che svela i tratti del lettore ed è insieme una mappa del mondo. Ciò deve avvenire in modo evanescente e appena percettibile, quasi a dispetto dell’autore.”

Non mancano richiami alla storia contemporanea. In particolare, all’ideologia nazional-socialista, che egli osservò, studiò e avversò da lontano, dalla sua nativa Argentina (dove tanti consensi e simpatie essa aveva raccolto), oppone la memorabile e definitiva affermazione di Mark Twain: “Io non domando di che razza è un uomo; mi basta sapere ch’è un essere umano; non potrebbe essere niente di peggio.”

La raccolta di saggi, queste densissime pagine nelle quali convivono il culto del raro e il ripudio di qualsiasi corrivo esotismo, è, anche, una galleria degli autori preferiti da Borges, ognuno dei quali egli illumina di una luce inedita, sorprendente, nella quale nessuno, che sia dato sapere, fino a quel momento li aveva considerati. Non ci fornisce solo preziosi consigli di lettura, ci dice altresì di questi scrittori, che in certo modo resuscita a nuova vita, qualcosa che ancora non era stato pensato -tanto meno da loro stessi. Suggerisce accostamenti che solo a prima vista appaiono azzardati, tanto profondi sono i vincoli che legano l’uno all’altro, magari anche a distanza di secoli e di continenti, due autori o, diremo meglio: due uomini, come testimonia il caso di Omar Khayyame del suo infedele traduttore Edward Fitzgerald, due uomini che, contemporanei, non sarebbero stati probabilmente neppure amici, e che invece insieme diedero vita a un terzo uomo, che non somiglia né all’uno né all’altro. Poiché per Borges fra vita e letteratura (letteratura concepita come impegno e avventura supremi) non può esservi che una misteriosa insondabile continuità (“Poche cose mi sono accadute e molte ne ho lette”).

Altre inquisizioni è davvero, come rileva nella densa prefazione il traduttore Francesco Tentori Montalto, “un libro singolare dove […] si tenta di scalfire l’indecifrabile del destino umano e di aprire spiragli sulla notte universale”.

Jorge Luis Borges, L’artefice, traduzione di Francesco Tentori Montalto, Rizzoli Editore, 1963

Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, traduzione di Francesco Tentori Montalto, Universale Economica Feltrinelli, 1963


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