Alcuni accadimenti della realtà ti raccontano la verità dei fatti più di tanti nobili convegni di studi. Il perentorio avviso di conclusione della vita editoriale nella casa madre Gedi da parte del direttore della divisione stampa nazionale (con letterina telegrafica) a Paolo Flores d’Arcais è un monito generale. Se da gennaio il glorioso bimestrale sarà costretto ad andare avanti contando quasi esclusivamente sulle sue forze, con i rischi del caso, il messaggio si fa chiaro ed esplicito.
Nella crisi storica dell’editoria, alle prese con l’età digitale e l’immanenza dei robot in redazione, la miopia del capitalismo del settore porta ad una selezione darwiniana. Chi è fuori dal coro del mercato mainstream va espulso e non un euro merita di essere investito o speso.
Guai, ovviamente, ad aprire una sera riflessione autocritica sugli errori madornali di un mondo che ha supposto di vivere di rendita, senza accorgersi del movimento carsico della rete via via egemonizzata dagli Over The Top. E senza cogliere la portata del futurismo tecnologico.
Tra l’altro, il decreto cosiddetto ristori in aula al senato (con voto di fiducia) è stato inclemente proprio sui temi dell’editoria, dando un ulteriore colpo a corpi già malati. E nubi si addensano pure sugli emendamenti omologhi presentati alla proposta di legge di bilancio ora alla camera dei deputati.
Torniamo a Micromega. Si tratta di una testata storica (nata nel 1986), che ha animato con vivacità il dibattito politico e culturale. Lo spazio di ricerca è sempre stato largo ed inclusivo, con una fertile miscela tra le culture di sinistra e quelle liberali. Una testata laica e progressista.
La rivista ha un tratto distintivo chiaro, figlio e continuatore dello spirito antico e originario immaginato da Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari.
Quell’impostazione politica ed editoriale è andata avanti per tanti anni, con picchi alterni, ma pur semprelegati al ceppo costitutivo. Da quando la famiglia De Benedetti ha lasciato il campo agli Agnelli-Elkann, avendo già indebolito la tensione iniziale, le crepe si sono allargate inghiottendo identità e numerose professionalità non per caso uscite dalle redazioni.
Si è detto del capitalismo dell’informazione, ma le gradazioni e gli stili sono nel frattempo profondamente cambiati. Probabilmente, il famoso avvocato avrebbe chiamato Flores alle sei del mattino, invitandolo ala partita della Juventus per parlargli. Il risultato, magari, non sarebbe cambiato nel lungo periodo, ma la transizione sì. Ragione economica e brutalità non sono la stessa cosa.
Il caso Micromega è la spia di una tendenza omologante e venata di autoritarismo. I principali gruppi, chi più chi meno, si chiudono secondo le convenienze immediate delle proprietà e l’eresia non è perdonata. Già, il bimestrale che rischia di chiudere è sempre stato eccentrico rispetto alle tifoserie dominanti. Non incline ad assecondare le sinistre storiche, ma severo contro le immoralità e le cialtronerie dei vecchi pentapartiti. Ferocemente polemico con il berlusconismo nelle sue varie forme e nei numerosi complici ed epigoni. Firme prestigiose, da Camilleri a Trabucchi a Rodotà a Dario Fo e Franca Rame; da don Andrea Gallo a Gustavo Zagrebelsky a Sandra Bonsanti. Insomma, un luogo di riferimento di un rilevante movimento di opinione (il celebrato ceto medio riflessivo), i cui progenitori si possono ritrovare in vari protagonisti del glorioso partito d’azione.
C’è da sperare che vi sia un ripensamento. In ogni caso, niente deve passare nella rassegnazione. Se finisce una storia editoriale è necessario lanciare l’allarme. Oggi a Micromega, e domani a chi toccherà?
I comitati di redazione di Gedi hanno fatto sentire qualche voce, come pure si è sentita la protesta della federazione della stampa.
Non basta, però. Ciò che accade attorno alla libertà di espressione in Italia non ha le sembianze virulente degli attacchi in corso in numerosi paesi, ma il quadro è preoccupante. Disoccupazione, precariato, ricorso massivo alle querele temerarie, minacce e intimidazioni sono lo sfondo atroce delle chiusure e delle censure. Se, poi, colleghiamo i fili alle sgradevoli sorprese normative, è bene cominciare ad urlare.
Il silenzio non è d’oro.