“Il Covid-19 è diventato lo specchio di un virus pervasivo ben presente nel cuore dell’uomo, metafora che svela un mondo malato. Vi è una sorta di pandemia dello spirito e dei rapporti sociali della quale quella del coronavirus diventa simbolo e immagine. Il viaggio in Iraq si deve inquadrare in questa emergenza sanitaria dello spirito come missione della Chiesa in quanto «ospedale da campo». Il luogo ideale per porre la tenda di questo ospedale è la piana di Ninive, che era stata occupata da parte del sedicente «Stato Islamico», tra il 2014 e il 2017, e così Ur dei Caldei, luogo di origine delle tre religioni abramitiche: ebraismo, cristianesimo e islam.” Si può dire che cominci così l’articolo con cui il direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, presenta l’imminente pellegrinaggio in Iraq di papa Francesco. Leggendo torna alla mente il sogno espresso anni fa da un altro gesuita, padre Paolo Dall’Oglio, che nel suo libro “Credente in Gesù, innamorato dell’Islam” aveva parlato di un Cammino per ebrei, cristiani, musulmani e secolarizzati, che li portasse da Ur, la città di Abramo, attraverso le principali tappe del suo migrare in Turchia, in Siria e infine ad Hebron, dove si trova la tomba dei Patriarchi. Il cammino di Abramo è stato un cammino all’insegna della convivialità, come indicano molti episodi biblici. Oggi esistono tanti Cammini, per esempio quello che conduce a Santiago di Compostela, ma all’umanità del terzo millennio, scriveva nel 2010 padre all’Oglio, serve un Cammino comune, di fratellanza, sulle orme del comune Patriarca.
Questa idea di Cammino comune in un certo senso sembra esserci nel viaggio di Francesco, visto che il patriarca Sako ha parlato di un incontro di preghiera comune a tutte le confessioni presenti in Iraq a Ur, con letture bibliche e coraniche insieme, tutte su Abramo. Ma l’articolo di padre Spadaro offre una prospettiva aggiuntiva e molto importante, potremmo dire decisiva. La Fratellanza, sempre più tema cardine del pontificato, ha davanti a sé una sfida, quella che io chiamerei la sfida “dei cavalieri dell’Apocalisse”, che sembrano aver preso il loro quartier generale proprio in Iraq. Scrive padre Spadaro: “ Il peso del passato califfale di Baghdad si riverbera nell’oggi come snodo di imperialismi, epicentro di visioni apocalittiche che vogliono accelerare la fine dei tempi con la violenza della filosofia dell’homo homini lupus, in una dialettica fra tensioni millenarie e mobilitazione militante. Quella di Francesco è una sfida dal forte valore «politico», perché capovolge la logica dell’apocalisse che combatte contro il mondo, perché crede che questo sia l’opposto di Dio, cioè idolo, e dunque da distruggere al più presto per accelerare la fine del tempo. È una sfida a chi non trova alternative all’essere martiri o apostati. No. C’è un’altra opzione, quella evangelica: essere fratelli.”
Questo passaggio è decisivo. Sia i qaidisti sia i miliziani khomeinisti, in urto frontale tra di loro da decenni proprio in Iraq, hanno questa visione apocalittica. Da una parte sognano di conquistare l’Islam proprio nella dialettica tra i miliziani aspiranti martiri e gli altri, tutti apostati. E poi sognano di condurre la loro preda a un urto frontale con l’Occidente, un urto capace di accelerare la fine dei tempi e quindi il trionfo della giustizia divina che la seguirà. Questa visione si accavalla con visioni imperialiste, e il peso di Baghdad, antica sede califfale, è enorme nella loro visione che sogna di conquistare alla loro eresia tutto lo spazio islamico per muoverlo alla guerra al mondo corrotto.
Ecco dunque la grande novità: dai tempi di Alessandro Magno l’antica Mesopotamia è la terra del confine mobile tra spazio Mediterraneo e spazio Persiano. Gli opposti imperialismi che vogliono sottomettere l’uno o l’altro spazio si confrontano lì e solo da lì può ripartire un messaggio inclusivo, fraterno, che eviti la deriva apocalittica.
Questo tema il direttore de La Civiltà Cattolica lo aveva colto e indicato già il 4 ottobre scorso, quando uscì l’enciclica e li scrisse per la sua rivista: “Fratelli tutti declina insieme la fraternità e l’amicizia sociale. Questo è il nucleo centrale del testo e del suo significato. Il realismo che attraversa le pagine stempera ogni vuoto romanticismo, sempre in agguato quando si parla di fratellanza. La fratellanza non è solamente un’emozione o un sentimento o un’idea – per quanto nobile – per Francesco, ma un dato di fatto che poi implica anche l’uscita, l’azione (e la libertà): «Di chi mi faccio fratello?».
La fratellanza così intesa capovolge la logica dell’apocalisse oggi imperante. Non siamo militanti o apostati, ma fratelli tutti.
La fratellanza non brucia il tempo né acceca gli occhi e gli animi. Invece occupa il tempo, richiede tempo. Quello del litigio e quello della riconciliazione. La fratellanza «perde» tempo. L’apocalisse lo brucia. La fratellanza richiede il tempo della noia. L’odio è pura eccitazione. La fratellanza è ciò che consente agli eguali di essere persone diverse. L’odio elimina il diverso. La fratellanza salva il tempo della politica, della mediazione, dell’incontro, della costruzione della società civile, della cura. Il fondamentalismo lo annulla in un videogame”.
Questo viaggio dunque si presenta come un viaggio per curare nella realtà odierna la malattia nel suo luogo d’origine, quella malattia dalla quale è nato il malanno che ha prodotto la pandemia. Il fronte iracheno infatti ha anche un altro sapore, più “nostro”: quella della conquista delle risorse energetiche indispensabili alla società consumista, che per questo lì ha tentato una sorta di neo-neo-colonialismo. Le tre malattie dell’animo d’oggi hanno nell’odierno Iraq una fonte primaria delle tante metastasi. Il 2021 di Francesco non poteva che cominciare così.