La condanna a quattro anni inflitta pochi giorni fa alla blogger cinese Zhang Zan chiude l’ennesimo anno nero per la libertà di stampa. I numeri degli operatori dell’informazione arrestati, condannati, uccisi – diffusi come sempre in questo periodo da Reporter senza frontiere e puntualmente ripresi da Articolo 21 – confermano che il giornalismo indipendente è nemico dei poteri autoritari.
Lo è durante i conflitti, lo è in tempo di pace. Lo è stato in questo 2020 segnato dalla pandemia da Covid-19.
Paradossalmente, proprio mentre sarebbe stato necessario unirsi in uno sforzo collettivo e solidale, ognuno per la sua parte, per contrastare la diffusione del coronavirus, tanti governi hanno colto al volo l’occasione per una resa dei conti col mondo dell’informazione libera.
Dalla Turchia all’Egitto, dalla Russia all’Iran, da diversi stati dell’Africa subsahariana così come dall’interno dell’Unione europea, abbiamo visto venir approvate nuove leggi contro le “fake news”, ritirate licenze, censurati portali. E naturalmente sono fioccati gli arresti nei confronti di chi metteva in dubbio l’efficacia della risposta alla pandemia o di chi rivelava le vere dimensioni di quest’ultima.
Persino in un periodo come questo, tanti governi non hanno rinunciato ad applicare la regola che “è meglio non far sapere”. E dire che proprio in un periodo come questo la libera circolazione delle idee, delle informazioni e delle ricerche scientifiche così come una comunicazione chiara e trasparente alla popolazione avrebbero potuto essere il rimedio più efficace prima dell’arrivo dei vaccini.
Nell’orwelliana scrittura dei codici penali dei poteri autoritari, mi è rimasto impresso uno dei capi d’accusa su cui si è basata la condanna a Zhang Zan: “ipotesi maligne”. Per i giudici di Pechino, i dubbi e le domande della blogger che scriveva dall’epicentro della pandemia, Wuhan, che lanciava l’allarme sulla polmonite misteriosa, che riprendeva le denunce dei parenti di persone morte nel giro di poche ore, non erano altro che “ipotesi maligne”.
Non ho dubbi che quell’espressione la ritroveremo in altre sentenze di condanna nei confronti dei giornalisti, purtroppo, anche nel 2021.
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