Ormai è legge della repubblica: la Gazzetta ufficiale ha pubblicato il testo di conversione del decreto legge n.125 del 7 ottobre 2020 sulle iniziative in merito al Covid-19.
Senza neppure un battito di ciglia, infatti, la camera dei deputati ha accolto in busta chiusa il testo arrivato dal senato. Compreso, eccome, l’articolo 4-bis, vale a dire l’emendamento per tutelare Mediaset dal presunto attacco di Vivendi. Insomma, un capitolo minore del De bello gallico. Se n’è parlato su il manifesto dello scorso 12 novembre. Ma ora il colpaccio degno di un regime autoritario, con la difesa a dispetto dei santi degli amici, è entrato nell’ordinamento italiano. Purtroppo, nel silenzio quasi generale. L’avesse fatto un governo, chessò, di D’Alema, le prime pagine e le urla si sarebbero sprecate.
Tuttavia, ben si sa che il diritto non è neutro e oggi nessuno può dire che il re è nudo. Ed è proprio nudo, perché le dichiarazioni del ministro Patuanelli, che condivide ovviamente la responsabilità con gli altri colleghi, suonano come esplicita ammissione di colpa. Nel senso, però, che l’aver disatteso una sentenza della corte di giustizia dell’unione europea, tesa quest’ultima a dichiarare superata una disposizione pre-digitale della legge Gasparri del 2004, non fa un plissé. Che si tratti di un articolo ad personam o ad aziendam non suscita emozioni. Anzi. Peccato che si sia riaperta la porta della cantina buia (Psycho docet) dove è nascosto il mostro del conflitto di interessi. Il peccato mortale di un sistema politico, sinistra compresa, che ha spesso inteso la televisione come luogo dove andare a parlare o a esibirsi, e non il capitolo cruciale dei cambiamenti della cultura di massa negli ultimi trent’anni. Tante trasmissioni e programmi hanno presagito, moltiplicandone poi gli esiti, proprio il populismo che si vorrebbe a parole disprezzare.
La sentenza di Lussemburgo era – se mai- l’occasione per rimettere le mani sul serio all’intera legge, fondata sulla difesa della concentrazione del biscione, e su un contentino lasciato alla Rai per mantenere il duopolio e non per benevolenza. Per non disturbare i manovratori, la conclamata (il linguaggio dell’epoca) multimedialità rimaneva oggetto dei convegni. Mentre un incrocio con le telecomunicazioni, ancorché magari ben regolato, era terra degli infedeli.
Tra l’altro, perché la legge appena approvata non ha abrogato – già che c’era- l’articolo n.43 del testo unico del 2005 (che recepì la Gasparri), preferendo delegare (con pacchetto ben confezionato) l’istruttoria all’autorità per le garanzie nelle comunicazioni?
L’effetto sperato del matrimonio tra governo, maggioranza e Mediaset si è visto subito, con il voto sullo scostamento di bilancio annunciato con sembianze da statista e animo padronale da Silvio Berlusconi. Da cattivo è stato cooptato nel pantheon dei buoni, da ex buoni ora emuli dello stile del cavaliere di Arcore.
Il tutto, poi, è avvenuto mentre pende un giudizio del tribunale amministrativo.
Naturalmente, il capitalismo è implacabile: le azioni in borsa di Mediaset sono cresciute nei primi venti giorni di novembre da 1,43 a 2 euro di valore.
Una considerazione generale. Governo e maggioranza, tutelati dall’anestesia cui è sottoposta la società italiana tra pandemia e povertà, non potrebbero esercitarsi con lo stesso dirigismo per facilitare l’approvazione della proposta di legge sulle liti temerarie, invano giacente al senato a firma Primo Di Nicola? Vale di più la sostenutissima azienda di Cologno monzese o la vita reale di centinaia di croniste e cronisti su cui pende la spada di Damocle delle querele? Querele con richieste di risarcimento anche milionari.
I temi delle liti temerarie e della diffamazione a mezzo stampa con il corredo del carcere per i giornalisti si rincorrono di legislatura in legislatura. Siamo, forse per difetto, alla quinta.
In Francia una mobilitazione fortissima ha convinto il governo a ritirare un improvvido articolo contro la libertà di stampa.
Sono maturi i tempi di una mobilitazione forte e diffusa pure qui. Una carezza a Mediaset e un pugno al diritto all’informazione è proprio troppo. A proposito, si sono appena celebrati i cinquant’anni del divorzio.