L’offensiva militare lanciata il 4 novembre dal Primo ministro Abiy Ahmed contro il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai rischia innanzitutto di far implodere il gigante africano ma anche che il conflitto possa tracimare nei Paesi vicini.
Mentre scriviamo è forte la sensazione che l’Etiopia stia volando alla velocità della luce verso lo sfacelo.
L’offensiva militare lanciata il 4 novembre dal Primo ministro Abiy Ahmed contro il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai (che guida il governo federale della regione settentrionale con 6 milioni di abitanti) rischia innanzitutto di far implodere il gigante africano che con i suoi 110 milioni di abitanti è la seconda nazione più popolosa del continente.
Sarebbe la fine delle promesse di transizione democratica avanzate nel 2018 da un premier giovanissimo e insignìto (forse troppo frettolosamente) del premio Nobel per la Pace per aver posto fine al conflitto ventennale con l’Eritrea. Ma sarebbe anche un De profundis sulla più promettente economia continentale, seppur segnata da evidenti contraddizioni circa la iniqua redistribuzione della ricchezza. Lo scontro tra il governo centrale e quello federale del Tigrai rischia di avere un “effetto domino”, in grado di propagarsi con la violenza dello tsunami ad altre regioni etiopi e ai Paesi confinanti.
Lo scontro tra il governo centrale e quello federale del Tigrai rischia di avere un “effetto domino”, in grado di propagarsi con la violenza dello tsunami ad altre regioni etiopi e ai Paesi confinanti.
La regione dell’Amhara è tradizionalmente in conflitto con il Tigrai per antiche e irrisolte dispute relative ai confini territoriali. Nel conflitto accesosi a novembre milizie di etnia Amhara (che appoggiano l’esecutivo centrale) si sarebbero rese protagoniste di massacri di civili inermi. Il malcontento alimenta anche le braci della protesta nella fertile regione centrale dell’Oromia, dove vivono quasi 40 milioni di etiopi. Abiy Ahmed, anche lui oromo, è accusato di aver tradito gli interessi del suo gruppo etnico.
Il Fronte di Liberazione del Tigrai (Tplf) punta il dito contro il Primo ministro: avrebbe cancellato i diritti della regione in nome dell’unità nazionale. Da tempo i tigrini, che hanno sempre rivestito un ruolo centrale nelle scelte politiche nazionali, lamentano di aver visto ridotto il loro peso nelle scelte dell’esecutivo.
Ad accendere la miccia del conflitto è stata la decisione di Abiy Ahmed di rimandare le elezioni nazionali a causa del Coronavirus. Il Tplf invece a settembre ha indetto le consultazioni federali, innescando l’escalation della crisi. Il Fronte ritiene infatti che sia scaduto il mandato del Primo ministro il quale per tutta risposta ha sciolto il parlamento federale eletto. Poi l’accusa di Addis Abeba ai secessionisti di aver attaccato alcune basi dell’esercito governativo a cui sono seguiti per rappresaglia bombardamenti aerei nei pressi di Mekellè, capoluogo del Tigrai, e la successiva offensiva militare.
Difficile anche verificare le notizie perché la regione è stata isolata: privata di elettricità, interrotte le telecomunicazioni e l’accesso ai carburanti. Accuse reciproche di atrocità e devastazioni a danno di civili. Decine di migliaia di profughi si sono rifugiate in Sudan per sfuggire alla violenza. Altissimo anche il numero degli sfollati interni. Insomma l’intervento militare non appare avere quelle caratteristiche di precisione chirurgica di cui si è vantato il premier, rischia di protrarsi nel tempo e alimentare sentimenti di rivalsa già tanto diffusi.
Decine di migliaia di profughi si sono rifugiate in Sudan per sfuggire alla violenza. Altissimo anche il numero degli sfollati interni.
Inoltre c’è il rischio concreto che il conflitto possa tracimare nei Paesi vicini. Addis Abeba ha da tempo aperto un contenzioso con il Sudan (ma anche con l’Egitto con cui più volte si è già rischiato lo scontro armato) per il controllo delle acque del Nilo dopo la costruzione della Grande Diga del Rinascimento etiope.
Khartum e Il Cairo temono infatti una forte riduzione del volume di portata del fiume che metterebbe in ginocchio le loro economie. L’emergenza ha indotto il Primo ministro a ritirare le truppe etiopi che dal 2006 operano in Somalia per contrastare i terroristi islamisti, una decisione che potrebbe indebolire ulteriormente l’esecutivo di Mogadiscio ma che preoccupa anche il Kenya che teme sconfinamenti e infiltrazioni degli shabaab già radicati sul proprio territorio.
E poi c’è l’Eritrea. I tigrini la accusano di sostenere con proprie divisioni l’avanzata delle truppe governative. Accuse respinte al mittente, ma ciò non è bastato a evitare che il Tflp lanciasse razzi sull’aeroporto di Asmara. I tentativi di mediazione delle nazioni limitrofe faticano a decollare. Gli osservatori politici più esperti auspicano l’intervento di Cina e Paesi del Golfo che hanno molta influenza nell’area. C’è in ballo il controllo del mar Rosso e i progetti economici legati alla nuova via della seta. Senza dimenticare gli interessi in gioco tra l’asse creato da Turchia e Qatar contrapposto all’alleanza tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi.
Insomma la pace in Etiopia passa tra Pechino, Ankara e Riad.
[pubblicato su Confronti 12/2020]