Patrick Zaki, lo studente egiziano arrestato con accuse infondate di propaganda sovversiva di rientro dall’Italia in Egitto lo scorso 7 febbraio, dopo 304 giorni in cella resta in carcere. Dopo la scarcerazione dei tre dirigenti di Eipr, l’ng per i diritti umani con cui collaborava lo stesso Zaki, si sperava che finalmente anche per lui si aprissero le sbarre della prigione di Tora. Così non è stato. Il suo calvario prosegue come quello di migliaia di altri attivisti, oppositori o cittadini dissenzienti, 1470 accusati dalla Procura Suprema antiterrorismo del Cairo solo nel 2019. In Egitto manifestare dissenso significa repressioni. E torture. Fino alla morte.
Come nel caso di Giulio Regeni.
Leggendo i report sulle violazioni dei diritti umani perpetrate in Egitto emerge con chiarezza che i sistemi utilizzati sui detenuti egiziani siano gli stessi che hanno lasciato segni sul corpo di Regeni.
Le testimonianze raccolte da un ricercatore al Cairo di Human Rights Watch, Mark Spencer (il nome è fittizio per tutelarne l’anonimato, fondamentale per la sua sicurezza), su decine e decine di episodi di tortura, non lasciano adito a dubbi.
Un dettagliato resoconto sulle pratiche adottate dai servizi segreti per costringere oppositori, attivisti, giornalisti, o come nel caso di Regeni cittadini stranieri sospettati di spionaggio o di atti che potessero mettere a repentaglio la sicurezza nazionale, a confessare le proprie ‘colpe’.
In particolare la sua attenzione è stata focalizzata su una ventina di prigionieri sotto la custodia di uomini della National Security che, dopo la rivoluzione del 2011, ha cambiato denominazione ma ha mantenuto lo stesso modus operandi.
Anzi, sottolinea il report, la situazione è addirittura peggiorata rispetto ai tempi di Mubarak.
Dalle informazioni che il ricercatore ha potuto acquisire dai detenuti egiziani, confrontandole con quelle relative al caso Regeni, ha concluso che a perpetrare le sevizie sia sui primi che su Giulio siano stati gli stessi uomini dell’agenzia di sicurezza nazionale.
In Egitto esiste un unico ‘canale giudiziario diretto’ che va dall’arresto alla condanna, passando per le torture finalizzate a estorcere ammissioni di colpevolezza spesso a chi non ha nulla da confessare. Si passa dalle percosse all’applicazione di elettrodi per indurre scosse elettriche, alla minaccia di stupro, compiuto anche con spranghe di ferro.
Tali procedure per Human Rights Watch, sono interamente ed esclusivamente gestite dagli appartenenti a questo organo di Stato che sottopongono i malcapitati detenuti ai violenti e coercitivi interrogatori lunghi dai tre giorni a una o più settimane. Alcuni di loro scompaiono anche per mesi.
Tra i casi seguiti dalla ong ci sono persone che sono state tenute in isolamento, senza poter interagire o incontrare nessuno, per quasi un anno. Unica discriminante, la resistenza alle pratiche di tortura di cui sono stati vittime. Di tutti gli intervistati nessuno di loro è stato liberato senza un’ammissione di responsabilità di qualche tipo, se non fornendo nomi di ‘complici’.
A quasi cinque anni dal ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, il sospetto che il ricercatore italiano non sia sopravvissuto all’incessante dose di sevizie perché non abbia ceduto ai suoi inquisitori appare ormai una certezza.
I genitori di Giulio, il loro avvocato Alessandra Ballerini, l’opinione pubblica, la Commissione parlamentare per la verità sull’omicidio Regeni presieduta dall’onorevole Erasmo Palazzotto, tutti noi, siamo stati uniti, saldi, nel chiedere giustizia, chiarezza sulla fine del nostro connazionale e sul movente che l’abbia determinata.
Oggi, a fronte della reiterata negazione da parte dell’Egitto di una verità giudiziaria che ormai ha ben poco da svelare, dovremo essere ancor più risoluti seppur il realismo non può che portare a un’unica e amara considerazione finale.
Il governo italiano, consapevole che non otterrà mai nulla di concreto dall’Egitto, se non il fascicolo con i documenti del ricercatore friulano e alcuni oggetti che nemmeno erano suoi, continuerà a trascinare la questione nel tempo, confidando nell’oblio, attendendo che l’opinione pubblica dimentichi, che la Commissione esaurisca il suo mandato e che i genitori si rassegnino.
Ma è questa l’unica vera ‘falla’ del ‘piano’ del governo.
Paola Deffendi e Claudio Regeni non smetteranno mai di reclamare verità e giustizia per il figlio, un ragazzo di 28 anni barbaramente ucciso senza un perché.
E noi con loro.