L’avvento di rinnovate forme di lavoro schiavistico nelle società contemporanee rappresenta una delle evoluzioni sociali più significative degli ultimi decenni e, nel contempo, una delle sue rimozioni più gravi. Si manifesta, infatti, con crescente evidenza anche in Occidente, una schiavitù di fatto che persiste. Una schiavitù che viene veicolata e sostenuta da tesi, linguaggi e comportamenti razzisti, xenofobi e classisti. Si tratta di un limite strutturale che vale in particolare per quei paesi che non hanno un passato coloniale (oppure che sono stati coinvolti in modo parziale) e che non hanno sviluppato un’analisi critica adeguata a quell’esperienza. Di conseguenza, quando la ricerca scende sul piano della realtà sociale di fatto ed è adeguatamente articolata, può incontrare, anche in Italia, nonostante la sua Costituzione, donne, uomini e minori ridotti in schiavitù.
Secondo, ad esempio, il rapporto Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil (2020), il lavoro irregolare riguarderebbe 400.000/450.000 lavoratori/ici agricoli esposti al caporalato, di cui più di 180.000 impiegati in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale. Molti di questi lavoratori e lavoratrici si trovano in una condizione che possiamo definire di schiavitù rinnovata.
Deumanizzazione e sistema padronale
Con alcuni di questi uomini e donne io con-vivo e cammino da oltre quattordici anni. Sono persone che non ho solo osservato e intervistato. Non ho solo cenato con loro, stretto le loro mani o bevuto un caffè nelle loro abitazioni. Sono stato uno di loro. Ho vissuto la loro condizione, lavorato con loro nelle campagne italiane, ho subito tutta la gamma delle violenze possibili agite da padroni, caporali, sfruttatori, impiegati corrotti, e tutte le contraddizioni delle norme, procedure e prassi vigenti, le retoriche razziste e le aggressioni di chi pensa di essere più uomo degli altri solo perché ricco, occidentale e bianco. Ho vissuto con gli ultimi, gli immigrati sfruttati e schiavizzati dai padroni italiani, costretti a subire violenze, soprusi e truffe in un Paese che dovrebbe essere fondato sul lavoro. Sono coloro che alcuni chiamano scorrettamente invisibili.
Sono infatti invisibili solo agli occhi di chi non vuol vedere, non si interessa, non partecipa a ciò che accade nel mondo, partendo da quella parte di mondo in cui egli stesso vive. Ero in provincia di Latina, ad appena cento chilometri da Roma e per circa due anni ho vissuto dentro la comunità indiana, ininterrottamente.
Ho dormito dentro il loro tempio, a Sabaudia, insieme ad altre decine di uomini di origine indiana, soprattutto sikh. Con loro mi alzavo alle cinque del mattino, per inforcare, vestito con abiti consumati, vecchie biciclette e, sotto il sole agostano o la pioggia di gennaio, dirigermi verso varie aziende agricole per lavorare sotto padrone.
Non è stata solo un’esperienza d’osservazione partecipante per un’analisi critica delle condizioni di vita e di lavoro di quasi trentamila immigrati indiani dell’Agro Pontino.
È stata anche la storia dei percorsi di formazione e lotta fondati sul diritto del lavoro, costituzionale, sulle pratiche sociali di rivendicazione e conquista di spazi di libertà, contro un sistema padronale fondato sulla subordinazione di tanti a vantaggio di pochi. Lavoravamo anche quattordici ore al giorno per 28 o 30 giorni al mese. E in quel tempo, piegati a raccogliere in ginocchio con accanto il caporale indiano che esortava a lavorare con maggiore intensità secondo dinamiche che rivelavano la genetica propria di un dominio che si manifestava dentro supposte esigenze produttive, avevamo solo due pause da dieci minuti. Durante quei brevissimi momenti, ho compreso quanto i diritti umani siano, anche in Italia, costantemente violati.
Ciò anche per la vigenza di un dibattito ancora concentrato prevalentemente sulla figura retorica del caporale, garantendo parimenti al padrone una sorta di salvacondotto per mezzo proprio di coloro che invece dovrebbero meglio comprenderne il ruolo e la funzione. Il padrone è capace, nel concreto manifestarsi del suo assolutismo, di dominare l’intera esistenza dello schiavo. Il tempo di lavoro diventa, all’interno del sistema neoschiavistico padronale, il tempo di vita poiché la stessa vita del lavoratore è organizzata per intero dal padrone (con il relativo clan sociale), dai suoi interessi economici e politici, dal suo desiderio di potere, dal suo linguaggio, dai suoi atti amministrativi e dal consenso sociale che gli deriva dall’essere soggetto riconosciuto e riconoscibile.
A questo processo si associa quello di autolegittimazione fondato sulla presunta impunità del padrone che deriva dal considerarsi protagonista unico dello sviluppo del Paese e per questo portatore di valore, soprattutto economico, incontestabile. La stessa società si fa condizionare dalla potenza del padrone, indipendentemente da come esercita tale ruolo e dalle sue responsabilità.
Lo schiavo e la società che produce la schiavitù, finiscono col percepire come naturale o inevitabile l’obbedienza agli ordini del padrone. Viene avviato un pericoloso processo di reificazione della vittima che, privata della propria dignità e del nucleo di diritti e libertà fondamentali, finisce col rappresentare il comune denominatore di ogni forma di schiavitù contemporanea.
La deumanizzazione è, infatti, l’elemento che da sempre connota la pratica della schiavitù e delle forme avanzate di razzializzazione sociale, insieme ad una delle variabili principali di questo sistema, che è la relativa economia (capitalistica) sviluppata.
Secondo il Sesto Rapporto Agromafia dell’Eurispes, il business delle agromafie, che comprendono le forme di grave sfruttamento, vale 24,5 miliardi di euro l’anno, con un balzo, nel corso del 2018, del 12,4%. Si tratta di un fiume di denaro che informa e deforma la democrazia italiana, espressione di rapporti di potere che sviluppano prassi, approcci sociali, verbali e non verbali, comportamenti orientati a tutelare le dinamiche dello stesso potere dominante, anche istituzionale, a discapito del diritto, fino a legittimare l’esistenza di una galassia di uomini e donne sottodeterminati e sottorappresentati, socialmente polverizzati, non considerati e percepiti come ininfluenti.
È la matrice di un’ideologia della disuguaglianza penetrata nei processi culturali delle società occidentali, divenuta principio ispiratore delle politiche pubbliche, del senso comune, del linguaggio quotidiano e relazione fondamentale del mondo del lavoro.
La stessa pandemia da Covid-19 ha drammaticamente amplificato strutturali disuguaglianze sociali ed economicheche hanno reso più estreme le condizioni di vita e di lavoro di migliaia di persone. Secondo Tempi Moderni ad esempio, durante l’emergenza Covid si è registrato un aumento del 15-20% di stranieri sfruttati nelle campagne italiane (40-45 mila persone), con un peggioramento delle loro condizioni lavorative, un incremento dell’orario di lavoro (oscillato tra 8 e 15 ore giornaliere) e del numero (20%) di ore lavorate e non registrate, a cui associare un peggioramento della retribuzione (-15%). Si è aggiunto, inoltre, l’aumento esponenziale dell’arrendevolezza dovuto al clima emergenziale che ha spinto molti immigrati sfruttati a considerare se stessi come secondari rispetto ai destini degli italiani e quindi a rinunciare ad ogni rivendicazione.
Joban Singh e il Progetto Dignità di Tempi Moderni
A questo riguardo il 06 giugno del 2020 un ragazzo indiano di nome Joban Singh di appena 25 anni è stato trovato senza vita all’interno del suo appartamento nel noto residence Bella Farnia Mare, nel Comune di Sabaudia, già luogo di residenza di molte famiglie indiane in gran parte impiegate in attività di bracciantato agricolo.
Joban Singh ha deciso di impiccarsi dopo essere entrato in Italia mediante un trafficante di esseri umani indiano, al quale doveva ancora circa 9.000 euro, essere stato gravemente sfruttato in una delle maggiori aziende agricole dell’Agro Pontino e aver subito il rifiuto da parte del padrone alla sua richiesta di emersione dall’irregolarità mediante art. 103 del Decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) del governo.
Si tratta del tredicesimo caso di un lavoratore indiano gravemente sfruttato che si è suicidato in provincia di Latina a causa della combinazione perversa di sfruttamento, caporalato, truffe e tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo.
E proprio Dignità–Joban Singh si chiama il progetto di Tempi Moderni che prevede l’avvio di una serie di sportelli legali, di assistenza sociale e formazione, organizzati con l’ausilio di Progetto Diritti, nel territorio pontino. Si tratta di sportelli diffusi in varie città pontine, a partire da Sabaudia, aventi il compito di fornire assistenza legale gratuita alle donne e agli uomini gravemente sfruttati, vittime di tratta e caporalato, obbligati al silenzio o alla subordinazione. Insomma, un progetto contro la schiavitù, realizzato grazie all’ausilio di avvocati di alto profiloe di grande esperienza, e con mediatori culturali affidabili e professionali provenienti a volte dalla stessa comunità indiana e altre da Roma allo scopo di impedire l’emersione di soggettività ambigue interne alla stessa.
Mediatori capaci di accogliere in modo corretto le persone e di percepire i loro bisogni, raccogliere le relative storie e restituirle senza alterarne il nucleo fondamentale, così come prevede la pedagogia degli oppressi di Paulo Freire. Un progetto che vuole anche contrastare le strategie (razziste) mediatiche, politiche e sociali di stigmatizzazione, stereotipizzazione ed esclusione di coloro che sono considerati antropologicamente diversi inseriti nel paradigma utilitaristico-segregazionista quali utili invasori, come rammenta il sociologo Maurizio Ambrosini, utili alla crescita economica ma invasori sul piano sociale e culturale.
Contro tutto questo non resta che approfondire, scendere sul campo col progetto Dignità-Joban Singh, e lottare contro i padroni, padrini e i loro referenti politici ed economici, responsabili della schiavitù che vige intorno a tutti noi.