La condanna è arrivata, la mattina del 28 dicembre. Non a 20 anni, come aveva chiesto la pubblica accusa (e come potrebbe tornare a chiedere se presentasse appello), ma a cinque anni e otto mesi.
Con la sospensione di due anni e 10 mesi e tenendo conto del periodo già scontato in carcere, Loujain al-Hathloul potrebbe, sottolineo potrebbe, tornare in libertà in un paio di mesi.
Ma non c’è da ringraziare i giudici sauditi per la loro “clemenza”. Questa sentenza, più mite del previsto, serve solo a limitare i danni rispetto alle proteste internazionali.
Arrestata nel maggio 2018, tenuta in isolamento per mesi, sottoposta a violenza sessuale e privata negli ultimi mesi di contatti telefonici regolari con la famiglia, Loujain paga questo duro prezzo per aver invocato e ottenuto riforme per la parità di genere come la fine del divieto di guida e l’abolizione del sistema del guardiano maschile.
Altro che “contatti con entità nemiche” e “diffusione di notizie riservate”, come ha sostenuto la pubblica accusa esibendo come “prove” alcuni tweet in favore della campagna #Women2Drive e gli scambi avuti con Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel paese.
Le altre quattro compagne di lotta di Loujain – Nassima al-Sada, Samar Badawi, Nouf Abdulaziz e Maya’a a-Zahrani – arrestate a loro volta nel 2018 solo a causa del loro impegno in favore dei diritti umani, attendono l’esito della loro persecuzione giudiziaria.
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