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Turchia, chiesta condanna per 38 giornalisti mentre Osman Kavala inizia il quarto anno di carcere

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In Turchia almeno 90 giornalisti sono ancora in carcere altri in libertà vigilata e in attesa di essere giudicati per crimini mai commessi. C’è chi ha raccontato l’anomala scalata al potere di un ministro,  chi ha portato avanti inchieste sulla corruzione nelle amministrazioni pubbliche, altri hanno  semplicemente espresso critiche sull’operato del governo o raccontato le difficolta del sistema economico turco. Come i 38 giornalisti finiti sul banco degli imputati accusati di diffondere notizie false e che danneggiavano l’economia del Paese in violazione della “legge sui mercati dei capitali.
Kerim Karakaya, Fercan Yalınkılıç, Mustafa Sönmez, Merdan Yanardağ, Sedef Kabaş, Orhan Aydın, e altri 32, redattori e collaboratori di testate turche e internazionali come Bloomberg, Halk TV, Tele1 TV ma anche economisti, editorialisti e volti noti della televisione turca, sono a processo davanti alla Corte del Tribunale İstanbul 3 ripreso la scorsa settimana e rinviato al 20 febbraio del 2021 dopo che il procuratore ha chiesto per tutti la condanna.
In particolare i primi sei giornalisti e l’attore e editorialista del portale di notizie SolHaber,Orhan Aydın, rischiano le pene più pesanti, dai 2 ai 5 anni.
I giornalisti di Bloomberg Yalınkılıç e Karakaya sono accusati per un articolo pubblicato il 10 agosto 2018 in cui si parlava del più grande shock valutario nel paese dal 2001 e di come le autorità e le banche stavano rispondendo all’emergenza.
L’autorità di regolamentazione bancaria turca BDDK aveva presentato una denuncia per la diffusione delle notizie accusando gli autori di tentare di minare la stabilità economica della Turchia.
Gli altri imputati avevano invece commentato la notizia sui social.
Il 14 giugno 2019, quasi un anno dopo i fatti contestati, l’ufficio del pubblico ministero ha presentato l’atto d’accusa contro i 38 imputati che è stato accolto dal tribunale penale che ha istruito il processo.
La prima udienza si è svolta il 20 settembre 2019. Durante l’audizione, entrambi i giornalisti di Bloomberg, i principali accusati, hanno rilasciato delle dichiarazioni spontanee rigettando le accuse. Kerimkaya, giornalista di economia con esperienza ventennale e che ha collaborato alla stesura della Legge sul mercato dei capitali, ha sottolineato come l’articolo in cui affermava che il dollaro USA fosse cresciuto del 24% rispetto alla lira  turca e che gli organismi di controllo economico turchi si erano riuniti per studiare una strategia di contenimento, raccontasse fatti.
“Le cose che avevo scritto non rappresentavano in alcun modo la condizione preliminare per configurare il reato di “benefici finanziari da speculazioni via stampa” che invece ci viene contestato – ha affermato il giornalista in aula – Io e il collega cofirmatario dell’inchiesta  non abbiamo ottenuto alcun vantaggio, né si trattava di speculazioni per influenzare il mercato dei capitali”.
Dichiarazione che Yalınkılıç ha condiviso e ribadito nel suo intervento.
Nella seconda udienza che si è tenuta il 17 gennaio, il tribunale dopo aver ascoltato gli altri imputati ha rigettato le richieste di assoluzione.
A causa della sospensione di tutti i procedimenti giudiziari dall’inizio di marzo al 15 giugno per la pandemia di COVID-19, il processo è stato ristato al 23 ottobre per le conclusioni dell’accusa.
A febbraio lil verdetto. Sentenza che per alcuni è già scritta.
I giornalisti di questo processo, come tutte le decine di altri colleghi arrestati e sottoposti a giudizio, alcuni stanno già scontando le pene, come Ahmet Altan, opinionista televisivo e scrittore di fama internazionale condannato all’ergastolo aggravato, pagano per non aver smesso di fare il proprio mestiere liberamente e per aver criticato apertamente il presidente Recep Tayyip Erdogan e il suo governo.
Come paga con la privazione della libertà, esattamente da  tre anni oggi, Osman Kavala.
Il filantropo e imprenditore Kavala è stato arrestato il 1 novembre del 2017 con l’imputazione di “tentato rovesciamento del governo” finanziando le manifestazioni di Gezi Park del 2013, poi quando la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ordinato alla Turchia di rilasciarlo per l’infondatezza del processo e la Corte costituzionale lo ha assolto, nei suoi confronti è stata formulata una nuova feroce accusa, quella di aver appoggiato la rete di Fethullah Gulen accusata del fallito colpo di stato del 15 luglio del 2016.
Alla sbarra per i fatti di Gezi Park in tutto ci sono ancora 16 accademici, giornalisti, artisti e imprenditori – alcuni in contumacia – che rischiano l’ergastolo. Un caso su cui hanno espresso grandi preoccupazioni Amnesty International a Human Rights Watch che denunciano come questo processo sia stato istruito senza “uno straccio di prova”.
Prima che dai giudici, Kavala era stato accusato da Erdoğan in persona di aver cospirato contro di lui sostenendo economicamente il movimento pacifico che nel 2013 animò una serie di manifestazioni di dissenso contro il governo, iniziate con il sit-in di una cinquantina di persone che si opponevano alla costruzione di un centro commerciale al posto di un parco vicino piazza Taksim, in pieno centro.
Cortei e dimostrazioni vennero repressi con la forza dalle squadre antisommossa della polizia, il bilancio fu di 9 morti e 8163 feriti.
Il rinvio a giudizio con l’accusa di ‘tentata eversione dell’ordine costituzionale’ di tutti gli imputati è maturato sulla base di un’ordinanza di 657 pagine, in cui compaiono anche i nomi dell’ex direttore di Cumhuriyet, Can Dündar, e del giornalista e opinionista Mehmet Ali Alabora, colpevoli di aver raccontato e commentato l’onda delle proteste.
Leggendo l’atto di accusa è evidente che non esistano prove a sostegno della tesi del procuratore ma teorie senza base giuridica, elemento che solleva dubbi sul rispetto della giustizia turca delle norme internazionali ed europee.
L’inchiesta sul movimento di Gezi Park non è ancora chiusa, altri esponenti della società civile sono sotto indagine. Non perché siano responsabili delle proteste ma semplicemente per aver esercitato il proprio diritto alla libertà di espressione.
Un “clima di paura” teso a scoraggiare lo svolgimento di assemblee pacifiche e a imporre bavagli ai media, imposto dalle autorità in Turchia nel silenzio colpevole di un occidente che disattende, con la propria indifferenza, principi su cui ha bassato la propria struttura democratica.
Oggi più che mai Articolo 21, insieme alla rete delle organizzazioni internazionali dell’Advocacy Turkey Group, continua a chiedere la liberazione di giornalisti, artisti e altre figure del mondo della cultura ancora in carcere in Turchia.


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