“Il premio Franco Giustolisi ‘Giustizia e verità – edizione 2020’ ad Antonella Napoli per le sue numerose inchieste e focus sull’Africa e sul Guatemala pubblicate su diversi giornali”,
Questa la motivazione con cui è stato assegnato alla direttrice di Focus on Africa e componente dell’ufficio di presidenza di Articolo 21 l’importante riconoscimento in memoria di Franco Giustolisi, grande giornalista d’inchiesta scomparso nel 2014.
Tra le inchieste premiate di Antonella Napoli, questo reportage pubblicato su L’Espresso, realizzato lungo il confine tra Guatemala e Messico, dove un flusso continuo di centroamericani sfida la giungla per rincorrere il ‘sogno americano’. Migliaia di migranti che percorrono sentieri impervi che spesso conducono a una fine tragica. Un viaggio con gli ultimi che marciano verso l’America e che lungo il cammino trovano bande di narcos, poliziotti stupratori e trafficanti di organi.
Guatemala. Esterno giorno. La foresta è ombrosa, umida, ostile. Nasconde gli animali che la popolano: bisogna interpretare i loro rumori e le impronte lasciate a terra per sopravvivere.
Orientarsi è molto difficile, la fitta vegetazione fa perdere qualsiasi senso della distanza e della dimensione. L’impenetrabile coltre di rami e foglie talvolta impedisce di vedere il cielo, incutendo un senso di smarrimento.
Quando poi cala il buio la notte si trasforma in un incubo, il senso di oppressione e di disorientamento si amplifica.
La marcia nella giungla è sempre molto lenta e parecchio difficoltosa, ci vogliono tempi lunghi per coprire anche distanze minime.
Il terreno, soprattutto da giugno a settembre, è costantemente bagnato e viscido e la superficie sulla quale si cammina è un unico tappeto di fango e foglie in decomposizione. In queste condizioni non è difficile slogarsi una caviglia o rompersi una gamba.
Chi vi si addentra per sperimentare qualche ora di avventura, con pranzo al sacco, vive un’esperienza fantastica, consigliabile. Ma se devi attraversarla come via di fuga, percorrendo a piedi chilometri tra arbusti, liane ed enormi radici che spuntano dal terreno, con la speranza di oltrepassare un confine che possa garantire una vita dignitosa, è tutt’altra storia.
In un attimo puoi ritrovarti coperto di insetti dalla testa ai piedi o sei costretto a rompere, a gran colpi di braccia, immense ragnatele che impediscono il passaggio.
Le condizioni peggiorano nella stagione delle piogge, a ogni passo è quasi inevitabile sprofondare fino a mezza coscia nella fanghiglia appiccicosa.
Lo sa bene Marco Elder, driver 35 enne nato e cresciuto in Guatemala dove è rimasto fino ai 19 anni, quando ha deciso di partire per gli Stati Uniti per rincorrere il sogno americano.
Ha un bell’aspetto Marco. Alto, muscoloso, colori poco latini: a Los Angeles, dove arriva con pochi soldi e tanta determinazione, sono un ottimo biglietto da visita.
Trova subito lavoro come autista per una casa di produzione cinematografica, per i primi mesi si appoggia da amici. È scrupoloso, preciso, sempre puntuale. Si fa ben volere dall’amministratore delegato che gli propone di passare alla sicurezza.
Comincia così la sua vita da bodyguard, con stipendio quadruplicato e assicurazione sanitaria pagata.
Sembra l’esistenza perfetta. Inizia a frequentare una giovane attrice americana, Monica 22 anni, un fisico da modella. Vanno a vivere insieme a Malibù. Marco ci resta fino ai 29 anni.
Poi una notizia irrompe nella sua quotidianità, che pensava nulla potesse più turbare. Sua madre si ammala, i medici le danno pochi mesi, lui torna a casa per assisterla.
Quando lei muore, quasi un anno dopo, Marco prova a rientrare negli Stati Uniti, ma il suo permesso di soggiorno temporaneo, nell’era di Trump, è carta straccia.
È lui ad accompagnarmi sul ‘cammino’ dei migranti centroamericani percorso per raccontare le nuove vie dei flussi migratori verso il Messico. Lui stesso lo ha affrontato più volte per provare a tornare a Los Angeles, dove la sua compagna era pronta a sposarsi per cercare di fargli ottenere la cittadinanza.
Dopo tre tentativi andati male, l’ultimo attraverso la giungla guatemalteca, si è preso una pausa dalla corsa al sogno americano.
Ripresa la vecchia attività di driver comincia a lavorare nel turismo come guida e autista. Parla bene l’inglese e l’alta presenza di vacanzieri statunitensi tra Tikal, la più importante area archeologica del Paese, e Antigua, con i suoi monumenti di architettura barocca ottimamente conservati, non gli fa mai mancare il lavoro.
Davanti a una ciotola di stufato, in un ristorante a conduzione familiare lungo il confine del Guatemala, racconta di quanti come lui abbiano fallito nel pericoloso viaggio attraverso la foresta, pagandola a caro prezzo.
Maria, ad esempio, lunghi capelli ricci corvini, la bellezza sfrontata dei 20 anni.
“L’ho trovata sporca e incrostata di sangue, occhi sbarrati, davanti a un bar dove chiedeva l’elemosina. Era così bella e fragile” racconta Marco con un luccichio nello sguardo “Le ho dato dei fazzoletti umidificati per pulirsi. Mi ha detto che era insieme a un gruppo di honduregni con i quali voleva arrivare in Messico quando, arrivati al checkpoint, è stata presa da alcuni agenti. Un vero e proprio sequestro. L’hanno portata in una stanza d’albergo, erano una mezza dozzina. L’hanno violentata a turno, più volte. Non riusciva nemmeno a camminare quando l’hanno lasciata andare. All’ufficio immigrazione dove ha trovato il coraggio di presentarsi, ha cercato di denunciare quegli agenti ma l’unica cosa che ha ottenuto è stato il foglio di via con la domanda di asilo respinta”.
Come Maria sono in migliaia a subire la stessa sorte. Soprattutto le più giovani. Un report condotto nel 2018 da Amnesty International ha rilevato che l’80% delle ragazze che attraversa illegalmente il confine tra Guatemala e Messico è vittima di abusi sessuali, percosse o rapinate come confermano i dati dell’Istituto della sanità messicano secondo cui sei donne su dieci che si presentano in ospedale hanno subito violenza. Quelle di cui si perdono le tracce, sottolineano gli attivisti per i diritti umani, finiscono nella tratta della prostituzione.
Eppure la percentuale femminile di chi cerca di attraversare la frontiera resta alta.
Anche ora che i ministri dell’Interno dei due paesi confinanti si sono impegnati, durante una visita a un checkpoint ‘comune’ nel mese di maggio, a chiudere oltre 30 ‘traversate’ illegali.
Dopo i 6000 uomini della Guardia National ‘promessi’ al presidente Donald Trump dal governo del Messico, sono stati dispiegati nel 2019 lungo il border centinaia di soldati guatemaltechi e altrettanti agenti di polizia per arginare il flusso di migranti che non allenta. Mai.
Nonostante l’incremento della sicurezza c’è chi non cede, soprattutto coloro che hanno già affrontato lunghe traversate dal Sud America. Si accampano lungo il confine nell’attesa del momento giusto per addentrarsi nella foresta, pur consapevoli del rischio per la presenza di narcotrafficanti senza scrupoli.
In migliaia, giorno dopo giorno, cercano di eludere i severi controlli frontalieri utilizzando una pista che si estende per chilometri.
Trasportati in camion fino ai margini del groviglio di vegetazione, si spingono dal Guatemala settentrionale verso il Messico sfidando lo sfinimento da calore e da fatica, le bande di malviventi, ma anche poliziotti corrotti e violenti.
Una pericolosa via di fuga che inizia nella minuscola città guatemalteca di El Naranjo, un sentiero sterrato attraverso la giungla di Peten, dove signori della droga pesantemente armati cercano di ‘arrotondare’ i guadagni dei loro traffici rubando a questi disperati i pochi soldi che hanno risparmiato per pagarsi un ‘passaggio sicuro’ verso gli Usa.
Circa 20.000 i migranti rapiti ogni anno, il business dei sequestri può essere molto redditizio. Secondo le stime della Commissione messicana dei Diritti Umani il guadagno medio annuo è di circa 50 milioni di dollari.
Le bande di narcos che hanno a lungo trafficato la cocaina nella stessa area della giungla stanno facendo affari nel settore del ‘contrabbando’ umano. Fanno pagare ‘tasse’ esose per il ‘transito’ e chi non ha abbastanza denaro viene sequestrato per chiedere riscatti alle loro famiglie.
“Siamo stati derubati. Non so dove siano il resto delle persone con cui viaggiavo. Ho perso tutto. Tornerò in Nicaragua, tornerò a casa ” è lo sfogo disperato di Paulo, un nicaraguense di 25 anni partito insieme al fratello e due amici di cui ha perso le tracce a metà percorso mentre cercavano di sfuggire a un gruppo di uomini armati.
Storia gemella per Alejandro, che ha lasciato la città di Choluteca, dove viveva con la moglie e i tre figli fino a quando dei criminali hanno rubato le loro due mucche e un asino, l’unica fonte di sussistenza della famiglia.
“Tutto ciò che abbiamo lasciato in Guatemala è la nostra fede in Dio” dice “Ritrovare il Signore è tutto ciò che ci resta in questo viaggio”.
Il rapimento al fine di chiedere riscatti non è l’unico rischio. È stato accertato che in alcuni casi gli ‘scomparsi’ siano stati vittime di espianto di organi. Sono stati rinvenuti decine di corpi, o ciò che avevano lasciato gli animali che se ne erano cibati, orrendamente mutilati: privi di cornee e con l’addome squarciato.
“È tutto più violento ora. Ci sono più armi, c’è più traffico di droga e i rischi per i migranti sono aumentati” conferma padre Ademar Barilli, che gestisce un rifugio per profughi nella città di frontiera di Tecun Uman. “Per il Centro America ormai non possiamo più parlare di migranti economici, è una migrazione generalmente di sopravvivenza. Non hanno nulla da perdere e sono pronti a esporsi a qualsiasi rischio” la sua certezza.
La giungla è l’ultimo ostacolo per i migranti centroamericani che tentano di raggiungere il piano di Bonampak, stato del Messico, per poi arrivare negli Usa.
Chi ce la fa si ferma per riprendere fiato, dopo aver percorso quasi 2.000 chilometri, a Saltillo, la capitale di Coahulia, il settentrione messicano.
Lungo la strada, molti di questi uomini, donne e bambini hanno subito aggressioni, rapine e sequestri ma hanno proseguito il loro cammino nella speranza di trovare una vita migliore negli Stati Uniti.
In Messico inizia, poi, un nuovo viaggio. Meno pericolo ma altrettanto impervio e senza alcuna garanzia di riuscire a giungere alla meta finale.
Non esiste una stima accurata del numero di migranti che entrano da irregolari in Messico dall’America centrale. Dai rilevamenti più recenti, le autorità di confine affermano di aver respinto 120 mila migranti negli ultimi 18 mesi. Le organizzazioni per i diritti umani parlano di 89 mila deportati nel 2018, tra cui 9.000 bambini, in maggioranza provenienti da Guatemala, Honduras e El Salvador. Tutti rispediti nei paesi di provenienza.
Il Messico ha potenziato non solo la presenza militare lungo il confine ma anche i controlli dei documenti dei viaggiatori a bordo di autobus, camion e di altri mezzi di trasporto, aumentando così il tasso di espulsione che, secondo funzionari dell’immigrazione, si alzerà di un ulteriore 30% entro la fine del 2019.
Proiezioni delle organizzazioni della società civile parlano di un numero di respingimenti vicino ai 150.000 all’anno.
Gli sforzi chiesti dal presidente americano all’omologo messicano Andrés Manuel López Obrador, che in cambio della sospensione dei dazi minacciati sull’export del Paese ha disposto misure più forti per arginare il flusso della migrazione attraverso il confine meridionale, hanno dunque prodotto l’effetto sperato.
Le strutture di accoglienza dei rifugiati riferiscono che il numero di chi riesce ad attraversa la frontiera con il Messico è in netto calo, dai 400 al giorno del giugno 2018 ai circa 150 nel 2019.
“Per generazioni il Messico è stato un paese tollerante verso i rifugiati politici ed economici. In questi giorni, la ‘generosità’ del nostro Paese è stata messa a dura prova” racconta Tullio Sanchez, autotrasportatore di origini salvadoregne. “Il fallimento nel mantenere i principi basilari della dignità umana e della protezione dalla violenza è una macchia sul presente e sul futuro del Messico. A beneficio di nessuno, eccetto i criminali che cercano di trarre profitto dalla sofferenza umana”.
C’è stato un tempo in cui Tullio ha potuto far finta di non vedere i tanti autostoppisti lungo il confine. Ma non è stato sempre facile.
“Come si può dire di no a donne e bambini che ti chiedono un passaggio?” dice con un sorriso a mezza bocca “Non importa quante volte mi avvertano, non posso proprio voltare le spalle. Non è giusto. Ci stiamo comportando come gli americani, siamo troppo spaventati dagli ‘stranieri” conclude con amarezza.
Stranieri, estranei, migranti. Per alcuni numeri di una statistica, per altri una minaccia alla sicurezza e al benessere di chi si trova sul lato giusto della frontiera.
Non vengono più considerati esseri umani che cercano un destino migliore, che quasi nessuno trova, della miseria da cui fuggono.
Sul confine tra Guatemala e Messico perdono ogni speranza e dignità. Come chi è responsabile del compiersi del loro dramma o resta a osservare indifferente