Scorrono via velocemente le quattrocento pagine dell’ultimo romanzo di Chiara Ingrao “Migrante per sempre”, Baldini e Castoldi. In un grande quadro che include la Sicilia, la Germania, la periferia romana si snoda la complessa e dolorosa storia di Lina, Linù, e della sua famiglia di braccianti siciliani. E’ una vicenda, ispirata da una storia vera, dalla quale emerge una forte genealogia femminile con presenze costanti come la nannu, Vincenza, la mamà, le sorelle e frequentazioni più limitate nel tempo come quelle di zia Marianna, la prof.ssa Diotallevi, la cilena Rosa, tutte presenze fondamentali, a volte decisive nella vita di Linù, ma non prive di ambivalenze e di contraddizioni.
Nella prima parte del romanzo si racconta l’infanzia di Linù in una lingua ricca di prestiti dal siciliano, la lingua di casa e del paese, e dei diversi fraintendimenti della bambina che cerca di orientarsi tra i discorsi misteriosi dei grandi, che spesso la zittiscono quando chiede spiegazioni.
Quando i genitori partono per la Germania, prima il padre clandestino e poi anche la madre , i cinque carusi restano con la nannu. Grande madre della famiglia, donna forte e luminosa che sa sempre trovare il gesto, la parola giusta e sa intendersi anche con la nuora Vincenza in quel linguaggio muto, di sguardi, delle donne.
La nannu non dimentica mai chi sono i padroni: “Si era rotta la schiena da quando aveva dieci anni a raccogliere olive e arance e mandorle. Si era appiccicata le mani alle pistacchiere, aveva preso le mazzate e le male parole senza sapere mai quando ti pagano e quanto” e non sopporta neanche patri Callaruna, il parroco, figlio di quei padroni. La nannu non va alla messa, ma partecipa alla processione di Pasqua che celebra l’incontro del Figlio risorto con la madre e quando si devono donare le pagnotte benedette ai poveri. E’ lei che costringerà i figli a tornare dalla Germania per il referendum sul divorzio, lei che legge l’Unità, che sollecita la famiglia a votare per le elezioni in cui si aspetta il “sorpasso” del PCI sulla DC.
L’altra donna forte della famiglia è la mamà Vincenza, la marescialla, che rifiuta di vestirsi di nero come le altre donne quando il marito parte per la Germania, una madre dura che non riesce ad abbracciare i figli, ma piange la notte sul pagliericcio di immigrata per la loro lontananza. Lei che non si spaventa davanti ai gendarmi tedeschi che le perquisiscono la casa e che si prodiga a far passare clandestinamente i compaesani dal tratto di frontiera non sorvegliata che passa attraverso un cimitero, lei che li accoglie e lava e cucina per loro finché non si sistemano.
La storia di Lina è una tortuosa storia di riscatto dall’umiliazione della povertà e dal destino di immigrata. Ci saranno altre donne sul suo cammino come zia Marianna che le apre i suoi scaffali pieni di libri e coi suoi racconti le suscita il desiderio di diventare ostetrica. La prof.ssa Diotallevi la guiderà ad ottenere una borsa di studio per il liceo. Linù sembra aver sconfitto il destino di miseria, spinta in avanti, da quella frenesia nei piedi che si scatena in lei, adolescente, quando sente la musica del jukebox, arrivato nel bar del paese. Ma la tradiranno zia Marianna con le sue maldicenze bigotte e la mamà Vincenza, che ha sempre sfidato le chiacchiere di paese, ma che non riesce a vedere altro riscatto e altra dignità che attraverso il lavoro in fabbrica in Germania: non c’è bisogno del liceo, anche con la terza media potrà diventare ostetrica quando avrà diciotto anni, sostiene Vincenza. Lina conoscerà la dura realtà della fabbrica, l’umiliazione degli ordini e degli insulti in una lingua che non conosce, di un lavoro ripetitivo in cui “non ci sta niente da capire”, ma non si piegherà e troverà sostegno nei sorrisi e nei discorsi fatti di segni e di disegni sui bigliettini con la turca Izmet. Lina non si arrenderà in lunghi anni di umiliazioni, cercherà lavoro in una fabbrica meno alienante, cercherà invano di tornare a vivere al paese, ritroverà orgoglio nella libertà di imparare da sola a andare in bicicletta, conforto nella religione di don Alvise, un prete diverso da padre Calluna, fino all’impegno nelle ACLI e all’incontro con Piero, un giovane contadino della pianura Padana, che ha accettato di diventare seminarista e forse prete per poter studiare. Dio sarà il suo rivale in amore finché non si realizzerà la sua storia con Piero. Non sarà finita però la lotta con i pochi soldi per la casa e i figli, con lo sradicamento anche quando tornerà in Italia e andrà ad abitare a Passoscuro, sul litorale romano, in una periferia di seconde case disabitate d’inverno. Là conoscerà la comunità dei nuovi migranti e per la prima volta avrà una vera amica, la cilena Rosa. La vita di Lina e Piero si mescolerà ancora e sempre con quella dei migranti, la loro sarà una famiglia non senza problemi e crisi, ma aperta agli altri, sempre pronti Lina e Piero a ospitare qualcuno o a correre in aiuto a un altro. Un giorno l’amica Rosa la lascerà per partire di nuovo e sarà lei a esprimere a Lina il senso di un destino al quale per qualcuno sembra impossibile sottrarsi. “Non sono gli altri a trattarmi da straniera: sono io che ho attraversato troppi luoghi e troppe tribù, per poter scegliere di appartenere a una sola … Chi è migrante è migrante per sempre”. Anche Lina sente forte a volte l’impulso di ripartire, di rimettere in gioco le sue carte in una nuova esperienza, come quando riceve le lettere dell’amico Matteo, prete operaio impegnato in Guatemala. Ma Lina non può fuggire, ha ancora delle battaglie da combattere e forse la più dolorosa è la riconciliazione nel profondo con la madre: “Quanti anni ancora … Per confessare a me stessa che la sua storia io non l’ho mai conosciuta, che la capacità per fare diversamente lei forse non ce l’aveva … Che tanto mi ha tolto ma qualcosa mi ha dato”. Del reso come Vincenza, che dopo la fabbrica faceva un altro lavoro nell’ospizio, anche Lina è diventata una “pulisci-culo”, ma Vincenza le aveva insegnato che nessun lavoro è “schifoso”. Quindici anni di duro lavoro in una struttura per disabili prima di riuscire a ottenere il titolo di “operatore socio-sanitario”. Con la sua empatia verso i più deboli, con la sua determinazione e infine, nonostante sia considerata una rompiscatole, con la solidarietà delle colleghe Lina affronta un’altra sfida, quella di rappresentare le lavoratrici e i lavoratori come lei nel Consiglio di amministrazione, di solito riservato solo a psicologi e laureati.
In un momento di scenari distopici come quello che stiamo vivendo fa bene leggere una storia che ci riallaccia a un nostro recente passato e ci restituisce il senso del dolore e della complessità di realtà odierne simili.
In chiusura del libro l’autrice dedica il romanzo “a chi mette in campo piccoli e grandi gesti di resistenza alla ferocia, in mare e in terra, nei luoghi impervi del vivere e nei territori dell’anima”.
Chiara Ingrao, Migrante per sempre, 2019