«Non è un’eredità, un portafortuna
che può reggere all’urto dei monsoni» [1]
Giancarlo decise la Corsica, così partimmo.
Fu verso la metà di agosto, la promessa del viaggio a giugno era stata rinviata: persi nel nostro futuro.
Convenzionalmente l’adolescenza era finita, anche se la nostra era stata breve, la mia sicuramente.
Qualche passo oltre i vent’anni non è un tempo uguale per ogni generazione. La nostra attraversava un paesaggio notturno, brume storiche ancora lontano dall’essere diradate. Gli anni di piombo impastavano le vite, l’oscurità nella quale camminava la democrazia italiana era bituminosa, catramosa, densa di incertezze.
Vivevamo in città di mare: io a Trieste, da circa un anno, lui a Napoli; nati a pochi mesi di distanza, in appartamenti divisi da qualche rampa di scale. Conoscevamo, dunque, le tempeste, lo scirocco e la tramontana che inasprivano la piana del golfo, trasformandola in guglie irate e schiumanti, ma la bufera confusiva di quel periodo non era decifrabile col mutare di un vento: subdola, inespressiva maschera di un potere mutageno. La lunga linea della Storia ci era apparsa presto un groviglio, una matassa inestricabile. La dittatura e la democrazia, il fascismo e la resistenza, il «non si può essere partigiani senza un preciso sustrato ideologico» del “partigiano Johnny “, si erano dileguati, cristallizzati in un atteso futuro di cambiamento e giustizia che non sarebbe arrivato.
Una notte, qualche anno prima, ci eravamo rannicchiati nella sua utilitaria ad aspettare l’alba e il primo bagno dell’anno; ci confidammo: «pensa a Moro, rimasto lì per ore, un anziano feto inanimato: condannato dalla ragione di Stato». Avemmo freddo.
La Corsica era stata decisa al telefono: non chiesi il perché, non era saliente il dove, ma il come. Era, in ogni caso, l’essere insieme, il ritrovarci, il restituirci al Sé dell’amicizia, dove il silenzio è il senso che le parole non possono esprimere, è carnale presenza che divina negli sguardi.
«Incontrarsi a fare insieme silenzio fa nascere qualcosa. Qualcosa che resta», scrive la Candiani.
Il treno sfilava per l’Italia nella parata dell’estate: raggiungevo casa.
L’estate luminosa, l’estate del nero fumo dell’estremismo di destra, il rigurgito fascista delle stragi di Stato: questi i pensieri e il disagio provato.
L’avevamo tante volte condiviso il sentimento di spaesamento, dell’essere senza Paese, del vivere nel nostro Paese senza quel Paese, quello degli oppressi e dei cafoni «carne abituata a soffrire… termine [i cafoni] di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore». Silone, e il suo Fontamara, aveva dato casa ai nostri pensieri, al generare un senso dell’esserci mentre si vive: esistenza e non sopravvivenza.
L’arrivo alla stazione di Bologna produsse un flusso di adrenalina che mi imperlò la pelle, come se la violenza del boato fosse ancora in me, presente e vigile. E oltre, quando le gallerie cavarono gli Appennini, riemersero le parole del volantino rivendicativo della strage dell’Italicus, che mi fecero chiudere gli occhi e respirare a fondo: «Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare…seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti».
La democrazia ci tormentava, ci lacerava l’idea del suo vilipendio. L’aperta e manifesta ingiuria perpetrata dalle stesse istituzioni, non solido argine agli stragisti, ma inquietante commistione con la deviazione di pezzi dello Stato. Ci sbigottivano i cortei dove mani di coetanei si alzavano con il pollice dritto verso il cielo, congiuntamente ad altre due dita – l’indice e il medio – unite a mimare la canna di un’arma puntata contro il mondo a loro ostile, e lo slogan scandito: «Poliziotto fa fagotto, arriva la P38». Così come ci ferì l’immagine internazionale dell’Italia descritta dalla famosa copertina di Der Spiegel del 1977, spaghetti e pistola, con la didascalia «Vacanze italiane: sequestro di persona, estorsione, rapina a mano armata».
Quando giunsi a Napoli, lasciammo piazze e strade per dirigerci lì dove è possibile abbracciare la città. Era rituale osservare la meraviglia dei turisti mentre s’offrivano allo spettacolo del paesaggio, quello noto a tutti: perdurante oleografia da sogno. Lacerante la sua bellezza, ferale era ciò che lo sguardo rilevava mentre percorreva il crescente e increscioso mare di cemento che erodeva il confine visivo; saliva quell’onda sulle pendici del vulcano, invadeva la costa, cancellava la forma dei declivi, assediava le memorabili vestigia. Richiamavamo, quasi per timore di dimenticare, la storia predittiva, ritratta con nitida analisi, del film di Francesco Rosi “Le mani sulla città”. Nell’intreccio tra politica e speculazione edilizia, si consumava il sacco, lo scempio, il degrado. La figura del costruttore Edoardo Nottola (Rod Steiger), in evidente conflitto d’interesse, tra betoniere e visi scarni di operai, si rivolgeva al comitato d’affari della giunta cittadina: «Quello è l’oro oggi [mostrando gli affastellati scheletri di palazzi in via di ultimazione]. E chi te lo dà? Il commercio? L’industria? L’avvenire industriale del Mezzogiorno, sì! Investili i tuoi soldi in una fabbrica: sindacati, rivendicazioni, scioperi, cassa malattia. Ti fanno venire l’infarto cu sti’ cose!…Il denaro non è un’automobile, che la tieni ferma in un garage: è come un cavallo, deve mangiare tutti i giorni!».
«Giancarlo», gli dissi, «ti ricordi i denari che si accumulavano nel basso rappresentato nella commedia di Eduardo “Napoli milionaria”? quei denari del contrabbando e della cupidigia che avevano stravolto il volto umile della famiglia Jovine?…eccoli qua, ora sono cemento senza regole…ci rimettono sempre i cafoni!». Annuì, già realizzava in sé la futura direzione: il rinnovato impegno dell’essere giornalista. Già lo era, già aveva pubblicato, già aveva maturato quello stile asciutto, quel cucire le parole in una trama che non lasciava adito ad ambiguità.
La Mehari viaggiava verso Civitavecchia, col suo beccheggio e i rumori di una barca a vela. Una scocca di plastica verde, chiaro e brillante, concepita per un’automobile tipo “spiaggina”, ovvero deputata ai lidi e alla spensieratezza di estati disimpegnate, che invitavano a essere noncuranti verso la successione effimera di equivoci governi balneari. Non era così per lui, non lo sarebbe stato: la cronaca l’avrebbe certificato.
La nave ci era sempre piaciuta, così come le isole, fin dai tempi di Stromboli: viaggio iniziatico che aveva sancito l’età adulta. L’odore del grasso e del salso, il ponte a sbalzo sul mare, la notte che preannunziava un fitto chiacchiericcio nel buio tra le stelle. Nell’en plein air della veglia, rammentammo Sarno: uno dei suoi primi articoli e dei miei scatti a corollario. Le donne, le donne e i bambini, la catena di sopraffazione che dall’occulto proprietario, attraverso il caporale, giunge alla raccoglitrice di pomodori. Volti e fazzoletti per il capo, bimbi già adulti, infanzie nelle case fatiscenti, mani artigiane e rapide, e rancore e rabbia e attesa. Il sindacato e le bandiere: il rosso stinto, floscio sotto un sole smisurato. Il taccuino di Giancarlo era zeppo delle parole piombate dal palco sulla folla, dal diluvio di un dialetto arrochito dalla stanchezza degli ultimi, dei vinti: delle tante famiglie Toscano, ammassate e pronte a invadere un futuro che speravano diverso.
La costa era in vista nell’annebbiato miraggio dell’alba, il caffè girava in plastiche trasparenti.
Bastia con la sua faccia mediterranea, stretta ad anello attorno al porto: diaframma tra mare e terra.
Partorito il carico di auto, moto e camion, la nave richiuse la sua enorme bocca, il ventre che aveva contenuto l’attesa della meta vacanziera si era svuotato, mostrando la ruggine e lo scavo della salsedine.
In attesa di scendere, Giancarlo mi disse che aveva una appuntamento. La cosa m’incuriosì, mi rallegrò ritrovarlo cacciatore incallito di storie.
Ancora oggi non so come avesse avuto quel contatto, come si fosse procurato quell’incontro!
Ci ritrovammo in un appartamento anonimo sul porto, ci accolse un uomo giovanile che aveva studiato in una università italiana; fu profondamente colpito dal giovane cronista, dai suoi modi cordiali e da quegli occhi eternamente vigili e attenti, dalle domande precise, mai condite da piaggeria o morbosità di dettagli inutili e inopportuni, che avrebbero messo a disagio il suo interlocutore.
La conversazione divenne sempre più agevole, si toccò, come era inevitabile, la storia del FLNC (Fronte di Liberazione Nazionale Corso), la principale organizzazione dell’indipendentismo dell’isola. Un movimento che chiameremo oggi di autodeterminazione del popolo corso, dichiaratamente orientato all’indipendenza sociale, politica ed economica. Nato verso la metà degli anni ’70, esordì con atti di deliberata rivolta contro duecento anni di oppressione e soffocamento culturale, durante i quali i corsi si sono sentiti invasi e colonizzati da uno Stato straniero, di cui non condividevano né la geografia, né la cultura, né i costumi, né soprattutto la Storia.
Fiorì così un dialogo aperto, seppur nella crudezza del problema, nella sfida di una comunità verso l’indipendenza, nell’urgenza improcrastinabile di sottrarsi al giogo, allo sprezzante e arrogante potere senza condizioni; di mettere in atto un’azione frontale alla riscoperta dell’identità e della lingua corsa.
Fiorirono così i racconti delle nuits blues, i simultanei attentati dinamitardi contro le seconde case dei francesi, ma anche le conferenze nei boschi e le denunce per opporsi alla speculazione edilizia e il turismo di massa, nonché l’operazione di occupazione di grandi latifondi da parte dello Stato francese a favore dei pieds noirs: i francesi d’oltremare, emigrati dall’Algeria dopo l’indipendenza del paese nordafricano e la dissoluzione dell’impero coloniale.
La visione che si componeva ai nostri occhi era quella della dignità negata, della necessità di riscatto e di imboccare una via che da un lato non rinfocolasse gli estremismi e l’odio, dall’altro non alimentasse povertà, delusioni e rabbia, che andasse a favore delle aspirazioni e del sogno indipendentista e non si macchiasse di repressione, alienazione civile e culturale, spoliazione territoriale, irriverenza e scherno delle tradizioni e della memoria. Giancarlo comprese tale afflato con lucida adesione, lo fece proprio, lo incardinò nel suo intimo sentire.
Il valore dell’affrancamento da un potere odioso e della riappropriazione della dignità lo guidò sempre, lo indirizzò, lo orientò nella sua breve ma incisiva testimonianza di verità.
Poi seguirono i giorni dell’incanto e delle seducenti notti estive, così come di addice alla più bella età.
[1] In esergo alcuni versi tratti da “Il Piccolo testamento”, composto nel 1953, fa parte, con “Il sogno del prigioniero” del 1954, dell’ultima sezione della raccolta “La bufera e altro” (1956), intitolata Conclusioni provvisorie.