La violenza viene agita se c’è qualcuno che la legittima. E quel qualcuno non è un’entità astratta: quel qualcuno siamo noi. È il vicino di casa che non sente, è il collega che non vede, è il familiare che fa finta di non sapere, è la mamma del compagno di classe che non ci può credere, è il barista sempre indaffarato. Tutti sanno ma nessuno denuncia.
Perché tra moglie e marito non mettere il dito, perché i panni sporchi si lavano in casa, perché anche quando accade al di fuori delle mura domestiche la violenza contro le donne e i bambini è considerata un fatto privato.
Ma così non è ed è da qui che dovremmo ripartire per evitare che il 25 novembre sia solo la giornata dei buoni propositi. Da una nuova consapevolezza.
Perché non basta sapere, anche se dovrebbe essere già abbastanza, che il 31,5% delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni ha subito una violenza fisica o sessuale nella vita, che nel nostro Paese dall’inizio dell’anno sono stati registrati già 98 femminicidi, che durante il lockdown le richieste di aiuto sono aumentate del 73%; ciò di cui dobbiamo renderci conto è che la violenza costituisce il maggior problema di salute pubblica a livello mondiale e i costi che ricadono sulla società sono superiori a quelli sostenuti per il cancro e per le malattie cardiache: la violenza contro le donne e i bambini, quindi, non è un problema delle donne o di chi la subisce ma di tutti. Non è l’effetto di una patologia dell’assassino, un argomento da cronaca nera, ma un fenomeno strutturale, «una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne» secondo una definizione del Consiglio d’Europa. Non è neanche un problema che si esaurisce con l’eliminazione delle donne, ma continua ad agire nella vita di chi — padri, madri, fratelli, sorelle, figli e figlie — sopravvive alla vittima, come ci racconta Stefania Prandi nel suo ultimo libro (“Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta”, Settenove edizioni, 2020). E potrebbe riguardare da vicino mia sorella, mia madre, una mia amica, la mia vicina di casa, la mia collega, me.
Cosa serve per contrastarla? Innanzitutto saperla riconoscere, chiamarla con il suo nome, e riuscire a farlo in maniera precoce. Per questo è necessario poter contare su una comunità disponibile a vedere e a investire nella protezione e nella prevenzione. Una comunità allenata e formata a cogliere i segnali. Una comunità che smette di essere neutrale e sceglie di essere oggettiva. Una comunità che sa che l’unico bisturi per aggredire un problema sociale dalle radici profonde è la formazione. «Esiste solo un farmaco fin qui noto» ha scritto Concita De Gregorio «e non ha effetto immediato. L’educazione. Dall’asilo, martellante: educazione, cultura, modelli condivisi.» Dobbiamo farcene una ragione: «La violenza contro le donne è la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di loro, e ha impedito un vero progresso nella condizione delle donne» (Assemblea generale delle Nazioni Unite).
Non c’è altro modo che l’educazione per imboccare la strada del cambiamento. Non c’è altro modo che farlo insieme.