Ho appena terminato l’audizione – rigorosamente da remoto – davanti al Comitato XIV Intimidazioni e condizionamenti mafiosi nel mondo del giornalismo e dell’informazione, istituita in seno alla Commissione Parlamentare Antimafia. Si parlava di una mia audizione in Commissione già nel luglio 2015, per voce dell’attuale vice-presidente della Camera, Maria Edera Spadoni. Se oggi ho potuto parlare al cospetto del presidente del Comitato Walter Verini e degli altri componenti della Commissione è stato grazie al presidente FNSI Beppe Giulietti, che ha trovato ottimo riscontro nel presidente Verini e nell’onorevole Stefania Ascari. Motivo della mia audizione, le parole dell’ex Collaboratore di Giustizia Vincenzo Marino, il quale lo scorso 24 luglio ha svelato davanti alla Corte d’Appello di Bologna di un progetto della ‘ndrangheta per “sistemarmi”.
La domanda (retorica) che ho posto e che pongo in tutti i contesti nei quali vengo invitato a parlare per raccontare la mia esperienza, è funzionale alle dichiarazioni rilasciate dall’ex sindaco di Brescello Marcello Coffrini e dall’attuale vice-sindaco di Brescello Stefano Storchi, i quali sostenevano che nei miei articoli scritti dal paese di Peppone e don Camillo non vi fosse il tema della criminalità organizzata; o quantomeno, che questo argomento non è in relazione al licenziamento intimatomi dall’amministrazione brescellese nel 2002. Gli amministratori brescellesi l’han detto pubblicamente: «…di criminalità organizzata non v’è traccia negli scritti dell’epoca…». Ma allora – ecco la domanda retorica – se non scrivevo di criminalità organizzata, perché la ‘ndrangheta voleva/doveva sistemarmi? Guardando i miei articoli dell’epoca, si può notare che le realtà trattate erano quelle della politica locale e dell’imprenditoria che faceva affari e attività sulle rive del Po. Ma scavando scavando, viene fuori che politica locale e imprenditori della zona avevano un legame strettissimo; e scavando ulteriormente escono lacci e lacciuoli tra le aziende della Bassa reggiana e personaggi del calibro di Bernardo Provenzano, tacendo di nomi noti solo a una nicchia di esperti “locali” di cosche e ‘ndrine.
Quindi, la criminalità c’entra; perché se non è mafioso solo il soggetto in “coppola & lupara”, allora non sono completamente a-mafiosi gli articoli in cui si parla di determinati imprenditori e ben specificati amministratori. Soprattutto se i primi – anni dopo – ricevono una interdittiva antimafia e i secondi si vedono sciogliere il “proprio” consiglio comunale per accertati condizionamenti da parte della criminalità organizzata. In pratica, non si parla di mafia solo scrivendo di cognomi tipo Grande Aracri, Riina, Messina Denaro, Provenzano o Brusca. Si può scrivere di mafia anche digitando Brambilla; o la declinazione reggiana del celebre cognome milanese per antonomasia.
Ma ho parlato anche di un altro argomento, davanti al Comitato ‘cronisti minacciati’; ho parlato della torre della Gabbia, che è un edificio presente a Mantova – la città dell’ultima redazione con cui ho collaborato – dove venivano rinchiusi in aeree prigioni personaggi resisi colpevoli di reati e colpe condannate dall’autorità locale. L’esposizione “al pubblico ludibrio” aveva il doppio scopo di punire i ladri e gli assassini, ma anche di fornire una nota educativa alla cittadinanza: chi commette violazioni, finisce appeso alla torre della Gabbia.
È dal 2002 che di fatto sono appeso alla vista di tutti, con le mie tribolazioni per tentare di riguadagnare un ruolo sociale di pari rilievo, rispetto a quelli che mi sono stati strappati con i licenziamenti da “vigile urbano” e giornalista. «Questa è la fine che fanno i partigiani», scrivevano i fascisti al collo dei patrioti impiccati sulla piazza. Ecco, io mi sento così. «Questa è la fine che fanno le persone che chiedono il rispetto della legalità», mi si potrebbe appendere sul petto. Mentre faccio altri mestieri, pur di guadagnare uno stipendio.
Ma la mortificazione di non poter più indossare la divisa della polizia municipale o di scrivere un articolo per un quotidiano, leggere un notiziario televisivo, costituiscono un sentimento esclusivamente mio; e brucia dentro come se fossi esposto dalla torre della Gabbia di Mantova. Ecco, questo sentimento è la lezione che devono apprendere tutti i cittadini; chi si ribella non tanto alla mafia, ma a una mentalità mafiosa, rischia di fare questa fine. La disoccupazione o la sottoccupazione, mali sociali che diventano mali della persona. Delle persone.
Questo ho detto alla Commissione; che lo Stato non può abbandonare chi fa il proprio dovere. Che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria; se quindi sono stato punito con il licenziamento, chi mi giudica come un esempio da seguire deve mettermi nelle condizioni di non esser più un “cattivo esempio”.
Deve esistere un modo per togliere dalla facciata della torre della Gabbia i giornalisti che fanno il loro lavoro per 5 euro a pezzo, i pubblici dipendenti che svolgono onestamente il proprio compito. Altrimenti i ragazzi continueranno a guardarmi pensando: «Ma chi te l’ha fatta fare?». E sarà la sconfitta; non di Donato Ungaro, ma di una società che vorrebbe essere civile e giusta.