Se volessimo ritagliare un edificante santino intorno al perimetro biografico del ricordo di Adriana Zarri, ne tradiremmo la memoria. Che non può essere affatto innocua, consolatoria, acquietante post mortem od anche, per altro verso, semplicemente afflitta da sentimenti di inconsolabile orfanezza.
Solo nella misura in cui di Adriana Zarri, morta il 18 novembre di dieci anni fa, rimane una presenza esigente, severa, singolare, dolcissima e complessissima, la monaca eremita del Canavese continua a vivere.
A Crotte di Strambino, nell’ultimo eremo che abitò, sono presenti due chiese vere e proprie che videro lei come “officiante”, liturga: una più grande affrescata con le immagini dell’Eden, con presenze di nudità maschile e femminile alle pareti, ed un’altra, più piccola, che raggiungeva negli ultimi tempi con un ascensore e dove spezzava il pane e versava il vino, già consacrati. Era la sua “missa sicca”, di cui dà una descrizione piuttosto precisa in Erba della mia erba – al tempo edita da Cittadella – e ripubblicato di recente, da Einaudi, con il titolo Un eremo non è un guscio di lumaca. Ed in Nostro Signore del deserto (pure ripubblicato da Rubbettino con il sottotitolo di Meditazioni sulla preghiera, mentre l’originario sottotitolo, delle edizioni Cittadella, era Teologia e antropologia della preghiera) scrive in maniera esplicita e diretta: «Ma la chiesa – che rispecchia il rapporto difficile tra uomo e donna – non sembra ancora rispecchiare, almeno nei suoi vertici, quella stima del sesso che pure è tipica della nostra stagione storica. Il valore della bipolarità umana viene riconosciuto astrattamente ma il nostro tessuto psicologico è ancora allergico e spaurito e lo tiene ai margini della preghiera. Forse teme contaminazioni. Il nostro modo di pregare è sotto il segno dell’asessualità. Nella liturgia qualche arrischiato versetto del Cantico (e si rimpiange che non sia più in latino) subito neutralizzato da interpretazioni ultrasimboliche; e per il resto come se la sessualità non esistesse. Forse ammettiamo il virilismo e l’infemminimento perché avvertiamo, nell’inconscio, che, in essi, la sessualità è già neutralizzata e decurtizzata, esorcizzata, imbavagliata. Ma della pienezza sessuale ci ricordiamo per la procreazione e per l’amore no; tanto meno per la preghiera.»
E segue una sua gustosa nota 1 a tali righe: «Si narra come episodio autentico che, durante il Concilio, mentre era in corso l’aspra battaglia per l’abolizione del latino, un vescovo portò questo argomento. La traduzione era del tutto improponibile. Come si sarebbe potuto dare in pasto ai fedeli versetti come «inter ubera tua commorabitur»? Se era pornografia i soli latinisti ne avrebbero avuto licenza!»
Nei suo romanzi Dodici lune e Quaestio 98 compare una narrazione teologica del vissuto sessuale che costituisce un unicum assoluto nella letteratura ecclesiale del nostro Paese, in particolare cattolica.
Per conoscere ed approfondire oggi, adesso, la figura di Adriana Zarri bisogna leggere il volume di Mariangela Maraviglia, appena pubblicato da Il Mulino, intitolato Semplicemente una che vive. Vita e opere di Adriana Zarri.
Lo studio di Maraviglia, approfondito e documentato con acribia di specialista appassionata, fa venire alle luce un aspetto che – non si sa bene per quale preciso motivo – viene sovente taciuto quando si parla di Adriana Zarri: il suo cocente innamoramento per Dio, la sua totale dedizione al Mistero Primo – od Ultimo – non come, o non soltanto come, sforzo intellettuale di tollerabile ammissione raziocinante, bensì come sprofondamento entusiasta e concretissimo, sino allo spasimo dei gesti d’amore, nel mare di un Tu che sta sempre oltre e al Quale dedicò una raccolta di preghiere, o “Quasi preghiere” come descrisse sulla copertina, esattamente con tale titolo: Tu.
Che anche solo vedere il suo nome e cognome creasse reazioni furibonde nelle sensibilità ipertradizionalistiche di ecclesiastici e fedeli Adriana Zarri lo metteva, in qualche modo, in conto, ma che anche “a sinistra” dei percorsi di Chiesa si rimuovesse la questione per lei fondamentale ed imprescindibile, cioè quella teologica, quella del Tu appunto, le risultava non solo difficilmente sopportabile ma anche pressoché del tutto oscuro ed indecifrabile, fino a polemizzarne con l’Isolotto e persino, aspetto che si ha quasi imbarazzo ad enucleare serenamente, con don Lorenzo Milani.
Scrive, nel 1970, per Gribaudi, Il grano degli altri. Meditazioni sull’Isolotto, «mostrando – sono sue parole testuali nella Premessa – come gli opposti estremismi si somiglino e le scuole – di «destra» o di «sinistra» che siano – denuncino lo stesso gregarismo (e una volta per tutte chiedo che mi si perdoni l’uso di due parole apparentemente politiche ma realmente molto più fondamentali che alludono a due strutture psicologiche e a due dimensioni metafisiche, sotto il cui segno va a collocarsi un numero indeterminato di coordinate omogenee – ad esempio Dio, l’eterno, l’essere, la stabilità, la tradizione, a destra; l’uomo, la storia, il divenire, la riforma, a sinistra – per cui il loro senso, molto ambiguo in politica, si allarga e si purifica in una zona di indicazioni più profonde).»
Esiste una fotografia, di facile reperimento in rete, che ritrae Adriana Zarri assieme a Rossana Rossanda, sua amica frequentatrice degli stessi spazi eremitici, e a padre Benedetto Calati, Priore dei Camaldolesi di cui sono pure ricorsi i vent’anni dalla morte questo 21 novembre. È una fotografia che sintetizza bene il senso di un’esistenza: il monachesimo e la questione delle donne vissuti a partire da un ripensamento fondativo del monachesimo, come testimoniò Calati, e da una sinistra storica che fosse tuttavia capace di radicale autocritica, come quella di Rossanda, sino a giungere a dissentire dal dissenso divenuto nuova omologazione.
Un altro passaggio di Nostro Signore del deserto può dare le dimensioni dell’innamoramento “teologale” di Adriana Zarri. Scrive: «La stessa frase Gesù ti amo, talvolta offerta alla devozione dei fedeli, dovrebbe esser ben più gelosamente custodita; e, se la si usa imperturbati, forse non si ha il sospetto della densità appassionata e passionale, di cui è gravida e che imporrebbe un ben diverso riserbo. (…) Certe espressioni audaci che i mistici ben conoscono, non per averle apprese, ma per averle inventate con irrefrenabile passione, non sono lecite, al di fuori di un particolare contesto di incandescenza che le legittima e rende necessarie. Usarle fuori da quel clima sarebbe impudicizia e sfrontatezza prossima al sacrilegio; avrebbero la medesima indecenza (lo abbiamo già rilevato) di un atto d’amore compiuto a freddo. Ma l’atto d’amore, anche se avviene nel contesto di comunione appassionata che lo rende giusto, bello e necessario, ha bisogno di una sua segretezza, non tollera occhi. Così il linguaggio d’amore della preghiera. (…) In quei momenti, tra Dio e noi, nessuno: né amici, né comunità, né prete, né papa, né liturgia, né sacramenti; soltanto un segretissimo silenzio.»
La testimonianza di Adriana Zarri ci attende nel futuro.
Così come il suo monachesimo eremitico laico – è necessario ribadirlo, “laico”, fuori cioè da ordini, regole, riconoscimenti istituzionali – disegna un orizzonte verso il quale la Chiesa non può mancare d’interrogarsi, ne va della sua stessa fedeltà al sogno di Dio.