La porno vendetta è il nuovo terreno sul quale si consuma la violenza contro le donne, un tipo di ricatto sempre più diffuso e una delle più odiose forme di persecuzione, a seguito di una storia finita male o semplicemente mai iniziata.
Immagini o video sessualmente espliciti postati su internet o spammati su chat private, senza il consenso delle persone rappresentate. Contenuti intimi che diventano virali e portano a conseguenze estreme le vittime.
Riguarda tutte e non risparmia le ragazzine, “Cappuccetto rosso” che incontrano sui social il Lupo.
I casi di cronaca del resto sono in aumento e sotto gli occhi di tutti, indipendentemente dalla fascia d’età.
Il “Codice rosso” ne ha introdotto la fattispecie di reato ed oggi il revenge porn è cristallizzato dall’articolo 612-ter del codice penale, prevedendo per gli autori fino a sei anni di reclusione e multe che vanno dai 5mila ai 15mila euro. La portata della norma ha un‘applicazione ampia ed investe non solo ex mariti, ex mogli, ex fidanzati, ma anche coloro che hanno ricevuto foto e video e le fanno rimbalzare sul web senza il consenso della vittima. Va inoltre chiarito che il consenso alla ripresa del partner in momenti privati non equivale al consenso alla divulgazione, perché non può essere implicito ne tacito, neanche nel caso in cui la persona in questione abbia un atteggiamento aperto o svolga per esempio professioni hard.
La situazione rischia di diventare sempre più paludosa e i media, la società civile e la politica non possono restare alla finestra a guardare. Occorre responsabilizzare i colossi informatici, le grandi aziende che gestiscono piattaforme on line e social, per cercare di contenere un crimine odioso. Bisogna martellare sull’importanza di campagne di sensibilizzazione, sull’informazione e la consapevolezza per chi usa alcune piattaforme. E’ necessaria l’immediatezza nella rimozione di video, immagini e contenuti lesivi e non autorizzati, riguardanti l’immagine delle donne che presentano denuncia, ma ancora andrebbero contemplati sanzioni più stringenti per coloro che non portano avanti attività di origin & fact checking sull’appropriatezza delle immagini e dei contenuti diffusi attraverso i propri canali.
Nel contrasto alla violenza di genere, non và sottostimato il diritto all’oblio, il diritto, in questo caso delle donne, di essere dimenticate. Questo diritto alla privacy permette, nell’ipotesi di diffusione illecita di immagini, la possibilità di essere deindicizzati nei motori di ricerca e quindi di non apparire nei link delle ricerche via Google. Il problema che si pone però è quello della lunghezza dei tempi per ottenere l’accoglimento della domanda di deindicizzazione: giorni o settimane, mentre la divulgazione di una foto avviene in pochi istanti. Dato quest’ultimo che fa emergere in modo evidente l’asimmetria tra giustizia e tecnologie, perché la prima non riesce a tenere il passo delle seconde.
Dal sexting al revenge porn è un attimo.
L’isolamento imposto per contenere il coronavirus ha minato molte relazioni, anche quelle tra i più giovani, ed ha scatenato l’esplosione dell’on line.
Il sexting (sex+texting) riguarda lo scambio di messaggi, audio, immagini o video a sfondo sessuale o sessualmente espliciti, specialmente attraverso smartphone o chat di social network. Il termine sdoganato per la prima volta dal Sunday Telegraph Magazine, è ormai di uso comune.
Il fenomeno è molto diffuso anche tra i minori. Save the Children scrive che “il sexting è comune tra gli adolescenti e rientra pienamente nel processo di costruzione e scoperta della propria identità, tipico di questo periodo”. Insomma niente di nuovo, ma i mezzi attraverso cui i ragazzi si esprimono sono cambiati rispetto al passato. Infatti la pericolosità sta nelle possibili pieghe del sexting: quando non si è più padroni delle immagini inviate e la loro diffusione su web e social è incontrollabile, passare dal sexting al revenge porn o al sextortion dura un soffio, giusto quello del click fatto da un ex partner per vendicarsi e ledere la reputazione della persona ritratta, a seguito dell’estorsione e dela minaccia di diffusione del materiale privato. Per queste ragioni la comunicazione sociale ed istituzionale dovrebbe incrementare le iniziative volte a spiegare bene le opportunità di un sicuro utilizzo di internet a tutti, specie ai minori, perché la violenza ha diversi strumenti con cui colpire.
L’incremento delle violenze domestiche causa covid
Il lockdown ha intrappolato all’interno delle mura domestiche molte donne vittime di violenza. Convivere con partner violenti e non potere lasciare il proprio indirizzo ha reso infatti molto difficile il ricorso ai centri d’aiuto.
Ad oggi non sono ancora quantificabili i dati relativi alla violenza contro le donne durante il periodo di confinamento. I dati nazionali al riguardo sono pochi e spesso contradditori.
Da un lato si nota un chiaro aumento delle telefonate al numero nazionale anti-violenza, il 1522, dall’altro, secondo fonti del Ministero dell’Interno, risultano diminuite le denunce per maltrattamenti, abusi sessuali e stalking.
L’Istat registra inoltre che i femminicidi siano diminuiti per più di due terzi tra febbraio e maggio 2020, ma l’informazione non deve trarre in inganno, anzi deve far riflettere sulle tante situazioni sommerse e sul silenzio che cala sulle violenze domestiche, un altro fenomeno che da tempo ha assunto dimensioni allarmanti.
Sebbene si siano fatti passi in avanti a livello legislativo riguardo al riconoscimento della violenza sulle donne, molte regioni non si sono ancora allineate e non hanno adottato misure adeguate di sostegno.
Gli studi compiuti nelle case rifugio ci restituiscono inoltre l’immagine di un altro fenomeno correlato alla violenza di genere, quello della violenza assistita da parte dei bambini e delle bambine. La maggior parte delle donne maltrattate sono madri che vengono picchiate ed umiliate davanti ai propri figli. Una ricerca condotta a livello nazionale da Save the Children, dal titolo “Abbattiamo il muro del silenzio”, ha permesso di evidenziare questo fenomeno e la necessità di intervenire in modo precoce, superando stereotipi culturali e colpevoli disattenzioni.
Va comunque rilevato che otto donne su dieci che subiscono violenza continuano a non denunciare e questo è un trend nazionale.
L’orientamento al lavoro: una carta da giocare
Ridurre il tasso di disoccupazione femminile costituisce una priorità d’intervento; bisogna considerare che nel 2019, solo il 30,2 % delle donne calabresi, di età compresa tra i 15 ed i 64 anni, risultava occupata. Questa condizione ostacola la fuoriuscita della donna dal circuito vizioso in cui è inserita. Un sistema di welfare insufficiente poi detta le scelte di molte madri.
L’autonomia economica, ottenuta attraverso il lavoro, rappresenta lo strumento fondamentale e imprescindibile per ridefinire qualsiasi percorso di vita.
Infatti, anche quando molte donne ottengono l’indipendenza psicologica dal maltrattante, si scontrano con le difficoltà di inserirsi o reinserirsi nel contesto sociale e lavorativo. Le esperienze più recenti nel campo dell’orientamento e della formazione al lavoro hanno evidenziato come l’inserimento/reinserimento lavorativo e la permanenza nel mercato del lavoro dipendano da una serie di variabili complesse e interagenti, tra cui pesano la bassa scolarizzazione e la scarsa esperienza lavorativa, spesso compressa per volontà del partner violento e per ragioni che rendono inconciliabile la gestione dei figli minori.