La par condicio e i tempi infiniti dell’epopea berlusconiana

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Il compianto garante monocratico (si chiamava così fino alla legge n.249 del 1997) dell’editoria e della radiodiffusione usava fare – da magistrato qual era- una battuta che sdrammatizzava il ruolo sacrale della giustizia. Traduceva il motto tot capita, tot sententiae in tutto capita nelle sentenze. Risata amara.

Un caso di scuola si rintraccia proprio nelle sentenze del tribunale amministrativo del Lazio di luglio e di novembre. Si tratta di una coppia di decisioni sui ricorsi proposti da Rai e Mediaset contro le delibere dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni del 2011 (nove anni fa, dunque), che comminavano – dopo svariati cartellini gialli, arancioni, rossi- sanzioni pecuniarie alle emittenti per la trasmissione nella serata del 20 maggio di un ampio videomessaggio di Silvio Berlusconi. Sotto la parvenza dell’intervista, si trattava in verità di un surrettizio (mica tanto) spot elettorale, tanto più in presenza del simbolo di partito.

Ma che accadeva in quel periodo? Si votava per diversi comuni e province, tra cui Milano dove trionfò Giuliano Pisapia e dove figurava come capolista della sua lista proprio Silvio Berlusconi. Ebbene, Tg1,Tg2, Tg5, Tg4 e Studio Aperto mandarono in onda uno pseudo format escluso dalla legge del 2000 sulla par condicio. In altre parole, la vicenda non era sanzionabile per mera violazione dei tempi attribuiti ai vari soggetti in campo, bensì – per rubare il linguaggio ai giuristi- in re ipsa. Insomma, era un illecito bello e buono. Fu presentato, del resto, un preciso esposto firmato da numerosi deputati (Roberto Zaccaria, Roberto Rao, Antonio Di Pietro, , Benedetto Della Vedova, Bruno Tabacci, Flavia Perina, Leoluca Orlando, Gennaro Migliore, Giuseppe Giulietti, Carlo Rognoni e Antonello Falomi). E il sottotesto della legge n.28 era di regolare la tipologia del discorso politico, introducendo spazi specifici e garantiti, fermo restando il divieto di abusare degli spot.

Dopo un così lungo lasso di tempo (ed è un problema serio), ecco le tardive iniziative del Tar del Lazio (competente per materia) tese ad annullare le delibere dell’Agcom, con motivazioni che lasciano alquanto basiti. Si contesta l’autorità per non avere disposto obblighi di riequilibrio dei tempi dei partiti. Già, ma si può riequilibrare un illecito, dando luogo ad una sfilza di ulteriori illeciti?

No, si direbbe, tuttavia questo all’incirca si sostiene.

La magistratura va difesa contro ogni proditorio attacco, ma si spieghi come mai si è inteso reinterpretare in modo tanto vistoso la legge. Per di più, attorno al ricorso ai videomessaggi la polemica è annosa ed è difficile non prendere atto persino di una coeva deliberazione del 2011 della commissione parlamentare di vigilanza, tesa ad impedire un uso ingiustificato di riprese con presenza diretta di candidati; nonché della norma primaria, che permette la presenza di personalità politiche nelle trasmissioni informative solo per strette esigenze di notiziabilità.

Ora vedremo se ci saranno ricorsi al consiglio di stato e si attende con curiosità l’evoluzione delle cose.

Onore al merito, comunque, alla consiliatura dell’Agcom presieduta da Corrado Calabrò (2005/2012), che inverò almeno in parte le previsioni della legge istitutiva del 1997. Ma le sentenze evocate lasciano un retrogusto amaro.

Se si intende mutare la par condicio, magari vecchiotta nell’era della rete e dei social, lo si faccia con chiare proposte parlamentari. Altrimenti, in una stagione delicata e rischiosa per gli stessi istituti della democrazia classica, si rischia di togliere di mezzo un argine limitato e tuttavia utile. Se, poi, come viene annunciato a giorni alterni, finalmente si metterà mano alla legge di sistema e al conflitto di interessi, la musica cambierà spartito. E, forse, la par condicio diventerà un capitolo di una ampia e moderna disciplina regolatrice. Ci vorranno ancora nove anni?

E qual è il sugo della storia, per citare il grande lombardo? Forse, l’urgenza che sia la nuova Agcom ad inviare una segnalazione al parlamento, affinché provveda a metterci la testa. Secondo lo stile evidenziato dal neo presidente Lasorella nel suo primo comunicato stampa.

Prima che l’edificio si sgretoli. Dura lex, magari: sempre meglio di un caos non calmo, però.


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