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Kamala Harris: il nuovo che spiazza

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Il quotidiano “Libero”, come sempre, cerca di far parlare di sé, ostentando una certa noncuranza per quello che accade nel mondo. Dopo aver evitato qualsiasi riferimento in prima pagina alla sconfitta di Trump e alla vittoria di Joe Biden alla carica politica più importante del pianeta, il giorno dopo ha citato la nuova vicepresidente degli Stati Uniti, la senatrice californiana Kamala Harris, definendola “vice mulatta”. Un epiteto indubbiamente ingiurioso, tra poco spiegheremo il perché. Ovviamente, si tratta di una mossa calcolata per suscitare indignazione, come giustamente è accaduto. Spero che l’Ordine dei giornalisti intervenga per fare chiarezza e sanzionare, ma non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Il quotidiano milanese, lo sappiamo, non è nuovo a questo genere di provocazioni, che sono un modo per far parlare di sé, anche e soprattutto quando ci sono ben altre notizie in prima pagina. Prendersi un po’ di scena, cavalcando la notizia più importante, è uno sport diffuso. A proposito di elezioni statunitensi, nel 2008 Berlusconi aveva fatto la stessa cosa, definendo Barak Obama, “Giovane, bello e abbronzato”. Ve lo ricordate? Stessa storia.

‘Mulatto’ è un termine storicamente desueto e oggi ritenuto decisamente offensivo per le sue connotazioni razziste, essendo nato in un contesto di assoluto assoggettamento da parte degli Spagnoli e dei Portoghesi sulla popolazione americana degli schiavi provenienti dall’Africa e dei loro discendenti. L’etimologia dispregiativa proviene da ‘mulo’ e indicava una persona nata dall’unione di un europeo e di un discendente degli schiavi africani. Razzismo puro, come a dire:”Se non sei bianco non conti nulla”.
Se “Libero” è bocciato in storia e geografia, sulle origini di Kamala Harris durante la campagna elettorale Usa sono inciampati parecchi media italiani, senza intenzioni provocatorie od offensive: proprio per questo è opportuno rifletterci. Infatti Kamala Harris è stata più volte erroneamente definita “afroamericana”. La verità è che la Harris è figlia del melting pot statunitense, una splendida donna con un bellissimo sorriso che ci fa capire quanto siamo rimasti indietro con i nostri stereotipi. La nuova vicepresidente degli Usa, infatti, è figlia di un’americana originaria dell’India e di un uomo che discende da giamaicani. L’Africa non c’entra niente, salvo che per i lontani antenati del padre.

Sul colore della pelle nel 2020 siamo un po’ messi male, non solo “Libero” intendo, e la rapida ascesa della senatrice Harris è stato un test su quanto siamo rimasti indietro. La Harris, in diversi notiziari e giornali italiani, è stata anche definita “di colore”, una definizione ormai insopportabile, da riporre in soffitta e da affidare ai corsi di storia della lingua italiana. Quale colore? Verde, azzurro, bianco, fucsia? Perché mai un indiano viene definito tale, ossia in base alla sua provenienza geografica, e per un’indo-giamaicana americana si richiama l’Africa e il colore?

In un mondo che cambia molto velocemente, la sensazione è di rimanere ancorati a vecchi stereotipi, che non sono solo quelli provocatori, un po’ da Ventennio fascista, urlati sulla prima pagina di “Libero” alla disperata ricerca di attenzione.
Intanto lei, Kamala Harris, si definisce semplicemente ‘americana’. C’è da scommettere che ne vedremo delle belle. Adesso, dopo quattro anni di intossicazione trumpiana, un’altra barriera è stata infranta. Cerchiamo di non restare indietro con il vocabolario: dobbiamo stare più attenti a tenere le parole al passo con la storia…


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