BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

I miei Special su Fellini. Seconda puntata

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Era intitolato IL FELLINI DI CASANOVA, con un intenzionale capovolgimento dei termini, il servizio di backstage che avevo girato per “ODEON – TUTTO CIÓ CHE FA SPETTACOLO”. Il rotocalco televisivo del TG2della Rai, a cura di Brando Giordani e Emilio Ravel, andava in onda in prima serata con cadenza settimanale, e in quei due anni di vita fece furore. I lettori meno giovani ne avranno conservato memoria perché il mercoledì era atteso con l’eccitazione di un regalo trasgressivo; l’impaginazione, ma anche lo stile dei filmati erano all’opposto dei soporiferi brodini televisivi: Laura D’Angelo, divetta alla paprika, cuciva tra loro i servizi, il ritmo era incalzante, i contenuti spregiudicati (vi collaborava persino Gian Carlo Fusco), il commento scanzonato. Il successo era stato strepitoso, grazie anche al travolgente Honky Tonk suonato furiosamente al piano da Keith Emerson, in uno stato di palese sovreccitazione.

Nel caso mio e di Liliana Betti il progetto nasceva come un’escursione rapsodica, allegra, piratesca, nel segreto della postproduzione cinematografica, in special modo felliniana. Terminate le riprese di Casanova, Fellini aveva accettato senza troppe resistenze che andassimo a cacciare il naso nelle alchimie dell’edizione, non sottraendosi neppure all’inevitabile richiesta di apparire di persona. Come infatti avvenne.

In genere i backstage vengono dedicati alle vicende del set, il luogo che convenzionalmente rappresenta un esuberante serbatoio di notizie; qui invece ci rivolgevamo alla fase più intima del processo creativo, più riflessiva e meno spettacolare. Per quanto con Fellini qualsiasi scorribanda nel retroscena del film assumesse immancabilmente proporzioni pantografate; persino i “fegatelli” diventavano una festa degli occhi.

Si trattava di riportare in superficie un aspetto poco conosciuto anche agli appassionati della materia, e pertanto sovraccarico di attese e curiosità. Odeon inseguiva esattamente quel tipo di scoop, e il proposito di sbirciare nel laboratorio segreto del Maestro era stato salutato dai curatori con un fremito di piacere proibito.

Ci recammo così a riprendere, nell’ordine, la registrazione dei rumori, l’incisione del doppiaggio e l’esecuzione dal vivo della colonna musicale, naturalmente nei luoghi canonici, già di per sé coinvolgenti.

In sostanza documentavamo la fase finale della lavorazione del film, prima degli ultimi interventi, vale a dire la riunione delle tre piste magnetiche in un’unica colonna ottica, la stampa della pellicola dopo il taglio del negativo, e infine la consegna della copia campione alla società di distribuzione per l’uscita della pellicola nelle sale.

Ci infilammo a capofitto nei tre recinti protetti, iniziando proprio dai rumori.

Lavoro oscuro quello dei rumoristi, al quale nessuno spettatore pone attenzione, e meno che mai ne conosce i dettagli; almeno allora era davvero un terreno pressoché inesplorato.

Ci istallammo nel laboratorio di Renato Marinelli, documentando step by step la tecnica con cui Enzo Di Liberto e Roberto Arcangeli, che appaiono nel filmato, riproducono i rumori presenti nel film. Che sono una quantità e una varietà inimmaginabili.

I rumoristi sono specialisti chiamati a ricreare con assoluta chiarezza l’intero ‘concerto’ acustico che si accompagna alla scena, a cominciare dal semplice passo degli attori su ogni genere di pavimentazione, selciati piuttosto che acciottolati, sanpietrini, asfalti, brecciolino, sabbia, roccia; e, nel caso di interni, parquet, moquette, lastre di marmo, maioliche.

Qualsiasi rumore raccolto dalla colonna di presa diretta, e anche quelli non ben captati, deve essere registrato seguendo con precisione l’azione mostrata sullo schermo. Si spazia dal crepitio della fiamma in un camino acceso, allo squillo del telefono, da una porta che sbatte, o si apre stridendo, al cigolio di un letto, da una bottiglia stappata al tintinnio del ghiaccio nel bicchiere, all’acciottolio delle stoviglie. Ma anche oltre le pareti, in esterno, bisogna poter percepire il tuono del temporale, il sibilo del vento, il crepitio della pioggia, il passaggio di un’auto sull’asfalto bagnato, lo stormire degli alberi, un miagolio, l’abbaiare di un cane. Qualsiasi suono presente nella storia raccontata va inciso nitidamente nella colonna rumori.

Fino a quando non vi poniamo attenzione di proposito, nessuno di noi nota l’incredibile polifonia che accompagna le nostre giornate; suoni che il cervello seleziona automaticamente al punto che alcuni li percepiamo senza sentirli, altri li escludiamo, altri ancora li enfatizziamo a seconda del grado di emotività che veicolano. Se pensiamo a un incontro romantico potrebbe venirci in mente il fruscìo di un abito femminile che viene sfilato, l’acqua che scroscia riempiendo la vasca da bagno, il ticchettio dei tacchi a spillo, una spazzola che liscia una lunga chioma, il nodo setoso della cravatta slacciata in fretta, una mantella di visone appoggiata sulle spalle.

I rumoristi oltre a possedere un archivio sterminato di rumori già registrati come il tonfo della portiera dell’auto, i vari clacson o rombi di motore, il diverso echeggiare delle campane, la sirena delle ambulanze; hanno in serbo le mille voci della natura, il gracidio delle rane, il frinire dei grilli, il garrire delle rondini. Nonostante ciò moltissimi altri sono costretti a ricrearli sul momento, ed è un esercizio che richiede orecchio finissimo, inventiva, precisione assoluta nella sincronizzazione.

Riprodurre l’ordito sonoro del nostro vissuto è un lavoro minuzioso e complesso, da certosini. La maggior parte dei rumori, in laboratorio, si ottengono con strumenti semplicissimi, insospettabili; il trepestio degli zoccoli dei cavalli è riprodotto battendo ritmicamente su un piano di legno due mezzi gusci di noci di cocco.

Renato Marinelli, e in seguito Luciano Anzellotti, tra i preferiti di Fellini, tenevano sempre da parte, a portata di mano, un nastrino magnetico con la registrazione di uno speciale soffio di vento. Quando il maestro lo richiedeva per riempire un vuoto emotivo della scena, eccolo pronto: il leggendario “vento di Fellini”.

Federico era instancabile nel controllo dei rumori. Ma il suo divertimento palpabile, raggiante, si accendeva con il doppiaggio.

Per Casanova, incerto tra Enrico Maria Salerno e Gigi Proietti, alla fine aveva preferito l’attore romano, insuperabile fantasista, il quale riuscì a conferire al leggendario personaggio quel carattere magniloquente e vanesio, vuoto e compiaciuto, che Fellini gli aveva ormai assegnato dentro di sé. Proietti, che stava vivendo un momento di ebbrietà amorosa, era incontenibile e sotto la guida di Federico aveva elaborato un autentico capolavoro vocale del protagonista, sfumando all’occorrenza l’eloquio persino con una impercettibile venatura di veneziano. Nello special lo vediamo al leggio mentre emette un suono grave di petto, che egli assottiglia a piacere in acuti di testa, tenorili,  affidandosi alle sue docili corde vocali e insinuandosi nelle pieghe più riposte di ogni sentimento: un prodigio di equilibrismo recitativo.

Seguire Proietti nel turno di doppiaggio, con Federico accanto che ricama trine per la sua ugola spiegando le intenzioni risposte, e forse subliminali, del personaggio, era stata un’esperienza da stordire. Oltre che molto spassosa, perché Gigi scapricciandosi a divertire Fellini, doppiava a sorpresa i dialoghi con la voce di Gassman, o di Salerno, o di Giannini, per sbertucciare i suoi precedenti concorrenti.

Oggi rivedendo lo special si resta ammaliati dai risultati altissimi ottenuti dall’ attore. Era riuscito a materializzare una voce inesistente (nessuno può sapere come parlasse Casanova) ma di fatto ormai insostituibile, in quanto fedelissima alla costruzione mentale concepita da Federico al di fuori di ogni realismo. In Italia Casanova avrà per sempre la voce di Proietti.

L’incisione dei dialoghi resta uno dei capitoli più suggestivi del servizio, nel quale peraltro compaiono sullo sfondo altri fuoriclasse del pantheon felliniano, da Livia Giampalmo, ex moglie di Giancarlo Giannini, a Solvejg D’Assunta.

Dal doppiaggio si passava alla fase più eccelsa della post produzione, verrebbe voglia di dire mistica, angelica: la registrazione della musica.

Storicamente la musica di accompagnamento nasce quasi insieme all’invenzione del cinema. All’inizio del Novecento, quando il pubblico affollava le piccole sale dei caffè o i tendoni delle fiere, incredulo nel veder muovere i personaggi sullo schermo, la proiezione era ancora muta. Le didascalie scritte su cartelli a stacco, precursori dei futuri dialoghi in sovrimpressione (subtitles), facilitavano la comprensione della trama; tuttavia in un’epoca di diffuso l’analfabetismo era la musica dal vivo a svolgere un ruolo emotivo determinante.

Sotto lo schermo veniva collocato un pianoforte e durante la proiezione il pianista accompagnava con i suoi virtuosismi ogni azione degli interpreti, cambiando in corsa tempo, ritmo e genere a seconda del movimento o dei sentimenti suggeriti dalla storia. Il tema poteva essere incalzante, patetico, languido, brioso, variando da un inseguimento a un abbraccio passionale, da un addio struggente, a una scena di violenza.

Per quanto possa apparire singolare, la musica da film continua ad avere ancora oggi la medesima funzione ‘ancillare’, a meno che non si tratti di una commedia musicale o di un musical. In quasi tutti gli altri casi svolge un ruolo di ‘servizio’, interviene con lo scopo di sottolineare il pathos di ciò che sta accadendo sullo schermo. Spesso il compositore ricorre a semplici soluzioni strumentali per sottolineare un trasalimento, un brivido di orrore, la suspense. Oppure si abbandona a svolazzi melodici per evocare l’impeto dei sentimenti in cui sono immersi i personaggi: il primo incontro, l’ansia dell’attesa, la passeggiata romantica, il bacio travolgente, la gelosia, l’inganno.

Sequenze e inquadrature scivolano su un contrappunto musicale gergalmente chiamato “lettino”, adatto a sostenere e definire lo snodo narrativo tramite la coloritura, l’enfasi, l’orchestrazione. Anche nei casi più raffinati, la musica non si discosta da tali esigenze pratiche.

Nei film di Fellini invece circola un’aria completamente diversa, grazie al ‘miracoloso’ incontro con Nino Rota, “l’amico magico”.  Fin dai primissimi titoli – Lo Sceicco Bianco, i Vitelloni – i temi musicali ci restituiscono l’aspetto più segreto dell’opera, parlandoci del sembiante nascosto, della sua anima. Rota non compone musiche da film, bensì traduce il film in musica; in analogia a quanto accade nel melodramma ottocentesco in cui il compositore trasferisce in arie immortali il testo del “librettista”.

L’accompagnamento musicale di Nino Rota non ricorre pertanto a effetti di maniera perché la sua suggestione corrisponde sostanzialmente alle ouverture delle opere liriche, le quali sin dal primo attacco anticipano e quasi svelano l’ordito emotivo della vicenda a cui lo spettatore è chiamato ad assistere.

Nel backstage girato per “Odeon – Tutto ciò che fa spettacolo”, entriamo con la cinepresa in sala di incisione (siamo alla Forum di Piazza Euclide a Roma) per scoprirne da vicino lo svolgimento: Alberto Savina alla bacchetta, e Rota che volteggia tra i musicisti ritoccando gli spartiti fino a un attimo prima dell’attacco, non di rado su espresso suggerimento di Fellini. Una fase di lavorazione del film a cui il pubblico televisivo veniva introdotto per la prima volta.

Tra le sorprese c’era anche l’esordio in Italia di uno strumento fatato e bizzarro che il compositore aveva scritturato per una esecuzione solista: l’arpe de verre. Giungeva dall’Austria insieme allo strumentista e consisteva in una piatta valigia rigida, rettangolare, con dentro un set di calici di cristallo: il musicista ne sfiorava con dita inumidite il bordo sottilissimo traendone suoni di soave incanto. Federico ne era affascinato e aveva definito così quella singolare vibrazione:

«Un suono che stenta a nascere, come ci mettesse una gran pena, come venisse da un altro mondo; così struggente da farvi venire la pelle d’oca.»

Alle ultime battute del servizio incontravamo Fausto Ancillai, il mitico fonico di mixage – oggi ultraottantenne ma ancora sulla breccia – che nella sua carriera si è misurato con un buon numero di film di Fellini e nutriva per il regista un affetto più da fratello che da collaboratore. Sapeva anticiparne ogni osservazione da un semplice lampo degli occhi, da una piega fuggevole dell’espressione, entrando in perfetta sintonia fin dalle battute iniziali.

Il missaggio, come si è detto, è lo stadio conclusivo del film, l’ultimo atto prima che l’opera approdi al suo compimento. Si svolge in una sala apposita, insonorizzata, munita di un grande schermo su cui scorrono le immagini, e di una gigantesca consolle acustica a uscite multiple con la quale è possibile isolare ogni singolo suono, o rumore, o strumento. Il tecnico di mixage, in presenza del regista e sovente anche dell’intera equipe tecnica – montatore, rumorista e musicista – ripercorre interamente il film dalla prima all’ultima inquadratura, mescolando tra loro i diversi apporti sonori, alzando o abbassando minuziosamente il volume dell’uno o dell’altro a seconda dell’esigenza della scena e delle indicazioni dell’autore. In tal modo, provando, riprovando, tornando indietro, confrontando, sperimentando, il fonico armonizza tra loro tutti i contributi acustici presenti nel film, fino ad ottenere il risultato di armonia funzionale al racconto. E sono giorni e giorni di lavoro.

Fausto Ancillai era il mago della consolle capace di un apporto tutt’altro che meccanico, benché assistito da strumenti di altissima precisione tecnologica in grado di donare al film l’assoluta resa sonora. A dominare era pur sempre l’orecchio di Fellini, immancabilmente presente a tutti i turni, incontentabile fino all’ultimo intervento. A riprova di quanto amava ripetere, che “realizzare un film è un’impresa complessa non diversa dal lavoro di un centro di calcolo di Cape Canaveral, con gli ingegneri impegnati a lanciare in orbita una navetta spaziale”.


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