Con la medesima troupe di Fellini nel cestino avevo girato in quei mesi, per Achille Manzotti della FASO Film, uno special molto articolato in cui raccoglievo le testimonianze dal vivo di tutti gli attori più importanti dei film di Fellini. Un’impresa mai prima tentata.
Le riprese erano state effettuate tra l’Italia e la Francia. Tutte le ricostruzioni scenografiche, a cura di Luciano Calosso, era state realizzate a Roma negli studi della Vides a Prima Porta. Per gli altri set nella Capitale erano stati utilizzati i Vivai del Sud, azienda di arredamenti superlusso con vastissimi showroom situati sulla Passeggiata Archeologica; e infine per Freddy Jones, il protagonista inglese di E la nave va, avevamo ‘requisito’ un pub in puro stile britannico che era stato aperto da poco a Via Vittoria, una traversa di Via del Corso.
A Parigi invece, selezionando uno ad uno i posti più idonei per l’atmosfera che volevamo ricreare, erano state realizzate le testimonianze di Marcello Mastroianni al Teatro Montparnasse, di Anouk Aimée in un allegro bistrot di Montmartre, di Magali Noël in un famoso circo stabile della Capitale, di François Perrier negli Studi Eclair dove l’attore stava recitando a fianco di Gérard Depardieu in un film tratto dal Tartufo di Moliere, e infine di Alain Cuny in un hotel de charm. A ciascuno il suo.
Una volta concluso il film (della durata complessiva di 1h 39’) era stato commercializzato dalla Faso in un cofanetto di due VHS dal titolo: ZOOM SU FELLINI. Successivamente fu rieditato da VIVIVIDEO MANZOTTI – RCS come FEDERICO FELLINI RICORDO DI UN MAESTRO; e una terza uscita fu presentata dalla DE AGOSTINI (Missing Video) sotto il nome di OMAGGIO A FELLINI.
Con Alberto Sordi ci siamo così trovati a lavorare ancora una volta insieme in occasione delle riprese di questo nuovo special.
Per coinvolgerlo ci eravamo mossi con molta cautela; Federico e Albertone si cercavano, si volevano bene al telefono; ogni tanto l’uno o l’altro, guardingo, faceva una prima mossa di avvicinamento, ma non si frequentavano e si vedevano poco. Qualche volta gli amori funzionano meglio a distanza, perlomeno così a me sembrava che accadesse tra loro.
“Non è più un attore, è una maschera, – commentava Federico – sarebbe arduo fargli interpretare un personaggio, il suo viso è diventato uno strato calloso di smorfie e ammiccamenti che neanche con lo scalpello riesci a demolirlo; la maschera riaffiorerebbe comunque.”
Una maschera che egli stesso aveva contribuito a creare, prima con Nando di Lo Sceicco Bianco, e poi con l’Aberto de I Vitelloni; ma l’attore era nel frattempo sfuggito al suo controllo, e ciò lo rendeva un Geppetto insofferente e impaziente. Aggiungeva però per onestà:
“E poi non sarebbe neanche giusta una diversa utilizzazione, sono operazioni senza senso, stonate, intellettualistiche, come pretendere di cambiare la faccia a Totò.”
Albertone, straripato in una stupefacente icona nazionale, non corrispondeva più al genere di interprete prediletto da Fellini, un’incarnazione unica, segreta, e quasi ectoplasmatica dei suoi transfert artistici.
Così con Sordi, dell’avventuriero veneziano finito come tutti sanno sulle ampie spalle di Donald Sutherland, non s’era più parlato; né credo che lui ebbe mai a dolersene. L’aveva presa a ridere, da persona di spirito, con autentica lealtà, senza la minima traccia di risentimento.
In questo frangente non c’era Federico a fargli da sponda, e Albertone poté abbandonarsi liberamente ai ricordi, parlando dell’amico quasi lo avesse lì, accanto a sé, e il tempo si fosse fermato. Si lasciò trascinare dalla corrente del sentimento, divagando, debordando, accendendosi di nuova fiamma. Quel fondo di amarezza che qua e là poteva affiorare per non essersi più creata l’occasione propizia di lavorare insieme, apparteneva ormai a un passato che non si cambia, a quelle vicende dell’esistenza su cui non occorre formulare altri giudizi. Lo Sceicco Bianco, I Vitelloni, i capolavori degli Anni Cinquanta che avevano rivelato la nascita di uno dei più grandi registi del mondo, e nello stesso tempo il prorompere del suo talento di attore, assurto addirittura a feticcio nazionale, appartenevano a una stagione ormai lontana nella prospettiva, benché vicinissima nell’emozione. Sordi, elegante, inappuntabile come sempre amava presentarsi al pubblico, con abiti di buon taglio, cravatta, camicie di stile, si rivolgeva alla macchina da presa affondando visibilmente, parola dopo parola, in una nebulosa miracolosamente intatta. Gli occhi gli scintillavano, il viso ringiovaniva a vista, ritornava ragazzo in virtù di un’arcana alchimia emotiva. E quando arrivò, con una serie di pause graduali, studiate, sapienti, a quella famosa affermazione sul suo amico Federico, “alto alto, secco secco, gracile, esile, ma ahó, con una capoccia grande così”, e alzava le braccia nell’aria a disegnare una sfera incontenibile, sembrava che quella capoccia l’avesse proprio fra le mani, che la tenesse abbracciata, come il testone di carnevale che Alberto ne I Vitelloni stringeva a sé piangendo all’alba, a festa finita.
Non so se fu la commozione che aveva catturato tutti noi della troupe; Sordi da par suo aveva rievocato la latteria in cui, in mancanza di soldi, i due amici all’inizio della carriera si rifugiavano per la cena e, grazie al corteggiamento della proprietaria, sotto l’uovo al tegamino appariva per incanto la fettina di carne; aveva ricostruito i lunghi momenti di angoscia che accompagnarono la presentazione a Venezia di I Vitelloni, pronosticata dai più come un insuccesso inevitabile e invece rivelatasi un trionfo; certo è che mentre Alberto narrava, persino la macchina da presa sembrava più silenziosa del solito, un ronzio appena percettibile, e quando l’attore concluse il racconto sdrammatizzandolo con quella sua bella risata grassa, contagiosa, scoppiò un applauso fra tecnici e maestranze, incontenibile, ebbro d’entusiasmo, come fossimo spettatori sprofondati in una poltrona di prima fila del Sistina.
Mi preme tuttavia aggiungere, e non certo per complimenti di circostanza, che tutti gli attori erano stati superlativi parlando del loro rapporto con Fellini, ciascuno presentandosi, per riflesso, al meglio della propria natura e talento. Una galleria trascinante di sentimenti, psicologie, emotività, agguati della memoria.
Vale forse la pena soffermarsi brevemente su ognuno di loro.
Leopoldo Trieste.
Non lasciamoci ingannare da come lo vediamo nel film. La vita turbolenta e una carriera protratta all’inverosimile, lo avevano addomesticato e persino addolcito dentro i panni di un aristocratico gentiluomo del sud, un’icona tra Pirandello e Lucio Piccolo. Così come poteva capitare di incrociarlo nel quartiere in cui abitava, dietro i vetri di qualche libreria antiquaria di Piazza Fiume restituita d’incanto, con il suo passaggio, all’eleganza retro di una compassata Roma umbertina.
Leopoldo Trieste faceva ormai parte di quella eletta schiera di artisti che ricevono riconoscimenti dalle mani del Ministro della Cultura e la cui opera viene raccolta in sontuosi volumi rilegati che non temono la sfida degli anni. Era l’uomo di spettacolo onorato e amato come si conviene a un testimone del tempo.
L’avevo conosciuto quasi da subito alla corte di Fellini, ma anche prima di incontrarlo mi era familiare attraverso i racconti insaziabili di Federico: un crepitio di aggettivi scintillanti, una epopea di imprese favolose, specialmente conquiste femminili, ricamate in guizzi di stupore, aneddoti, risate, ammirazione, tributati senza risparmio, nel segno di un’amicizia profonda e sincera.
Per l’intervista a Trieste avevo scelto un angolo di teatro di posa vuoto, spoglio, solo luci dirette e quinte di tramezzi, il carrello sui binari e lui seduto su uno sgabello. Inutile insistere sull’acutezza, il divertimento, la godibilità della sua testimonianza; ricordo con nitidezza l’emozione provata appoggiando l’occhio al mirino della cinepresa e ritrovando nell’inquadratura quel sembiante stralunato che prima di me avevano scrutato Fellini, Germi, Coppola. Se esiste l’aura dell’attore, l’ángel, o qualsiasi altra cosa sia quella manifestazione segreta, impercettibile a occhio nudo, che identifica l’animale di spettacolo, ebbene io la stavo percependo, l’avevo davanti. Il tratto di un disegno folle e sacrale, la misteriosa magia di un canopo, che aveva fatto esclamare a Totò: “Vuie tenite ‘a maschera!”.
Anita Ekberg
I disegni di Federico la descrivono così, un’ammaliante orca marina pronta a divorarti. Ma il regista si inteneriva specialmente per la sua natura infantile, inconsapevole, da gigantessa disarmata. Quando l’ho intervistata, Anita si era descritta timidissima, confessava di non essersi mai assuefatta all’assedio del desiderio maschile, avvertiva addosso gli occhi delle persone e specialmente degli uomini, come una ragnatela paralizzante. Sentendosi scrutata, frugata, per riuscire a vincere l’insostenibile disagio, quando entrava in un locale stringeva talmente i pugni da ferirsi con le unghie il palmo della mano. Temeva febbrilmente di avere qualcosa fuori posto, “una imperfezione nel vestito, una smagliatura nella calza”, che la esponessero al ridicolo, alle critiche, alla disapprovazione. Dio mio, quanto poco ci conoscono le donne! Ed è la nostra impagabile fortuna. Se avesse saputo Anita quale sgomento provocava al suo passaggio, quale attonita devozione, così simile a quella con cui si esalta Marcello entrando per lei vestito di tutto punto nella Fontana di Trevi! Solo Fellini, chi altri al mondo, poteva inventare quella scena di trasfigurazione per suggerire l’abbaglio che proviamo di fronte a una divinità, davanti alla bellezza sovrumana che ci accieca e ci rende insani, ma angelici allo stesso tempo. Federico l’aveva quasi santificata, ritraendola avvolta in uno scenario mitologico da togliere il respiro, donandole l’eternità artistica, destino riservato a pochi sulla Terra.
Eppure la bella Anita si mostrava leggermente contrariata, e rivendicava con piglio stizzoso da scolaretta che lei era stata creata da sua madre non da Fellini!
Andiamo avanti random, cioè come viene, senza rispettare nessun ordine di apparizione.
Anouk Aimée
Era stata incantevole, così elegante per natura, diva sublime ma alla mano. Con aria sognante aveva rievocato, in un tipico caffè di Montmartre, l’atmosfera irreale, magica, sospesa che aleggiava nei film di Fellini, dove tutti erano felici, beati, in armonia, coccolati dal regista.
Marcello Mastroianni
Era stato ripreso sul palcoscenico del Teatro Montparnasse dove in quella stagione recitava, in francese, nella celebre commedia “Cin Cin” di François Billetdoux diretta da Peter Brook. Marcello si era avventurato con sottile intelligenza in un ritratto affettuosissimo e complice dell’amico, anzi “dell’amichetto mio”, come lo chiamava con tenera espressione da adolescente. Ricorrendo al suo naturale understatement aveva anche provato a sminuire il ruolo di alter ego che gli era stato affibbiato: “Ma che vuol dire, uno dice una cosa e tutti la ripetono”.
Franco Fabrizi, intervistato al tavolo di un’allegra trattoria romana, ricostruita alla Vides, aveva messo soprattutto in evidenza l’aspetto sornione di Fellini, il quale non spiegava mai nulla della parte, ma trascinava l’attore sul set come se fosse bendato.
Franco Interlenghi, dolce e malinconico così simile a Moraldo, il personaggio da cui forse non si era più ripreso, metteva in evidenza la fatale precarietà del mestiere d’attore.
Terence Stamp era stato ‘incorniciato’ assieme a un bolide rosso che richiamava la fatale spider della Ferrari regalata dalla produzione a Toby Dammit. L’attore inglese, sensibilissimo, era ancora stupefatto dalla capacità maieutica di Fellini nel farti partorire il personaggio che hai già dentro di te senza saperlo.
Magali Noël, fiera delle sue origini di majorette da parade, di ragazza attrazione con un serpente intorno al collo, era stata ripresa sulla pista di un circo in muratura di Parigi, e ci aveva investito con un turbinio di freschezza travolgente, gli occhi raggianti nel rievocare aneddoti su La Dolce Vita, Satyricon, Amarcord.
Donald Sutherland si era divertito a ripercorrere con gustosi dettagli e commenti spiritosi, i rapporti tesi tra lui e il regista all’inizio della lavorazione di Casanova; per poi confessare il totale innamoramento nei confronti di Fellini, che gli aveva regalato la più straordinaria interpretazione della sua vita.
Donatella Damiani, ‘sorpresa’ nuda durante una scollacciata seduta di body painting, cinguettava ancora inebriata della favola di celluloide in cui era stata catapultata dal Genio della Lampada.
Freddy Jones, di rara simpatia, aveva inscenato uno sketch spassoso, rivivendo davanti all’obiettivo, da consumato commediante, il soprassalto di incredulità nel momento in cui, alzando la cornetta del telefono a Londra, aveva sentito la voce di Fellini che lo scritturava per un main role nel suo film già in procinto di iniziare.
Caterina Boratto, da gran dama seducente, aveva rivissuto la palpitante emozione del primo incontro con il regista. Federico, lusingatore irresistibile, l’aveva fermata per strada, in via del Corso, per chiederle il numero di telefono, promettendole una parte ideata appositamente per lei.
Sandra Milo, l’amata Sandrocchia, interrogata nel suo studiolo alla RAI dipinto e addobbato in rosa confetto come un peccaminoso boudoir, aveva riferito del suo rapporto speciale e insostituibile con Federico, dribblando abilmente su ogni gossip ma senza rinunciare a maliziose allusioni.
Armando Brancia favoleggiava con ironico distacco partenopeo, sulla trasformazione del proprio sembiante pretesa da Federico. Il quale nelle sedute di trucco lo aveva reso identico al disegno che aveva in precedenza schizzato per lui, con il bernoccolo in testa.
Giulietta Masina si era lanciata a ricamare emozioni uniche e profonde, raccontando con lepida disinvoltura il suo rapporto con il marito sul set, i dispetti, le incomprensioni, le riconciliazioni.
Ciccio Ingrassia appariva ancora incredulo per la fortuna che gli era toccata. Riferiva come in estasi, riverberato, del miracolo che da un giorno all’altro l’aveva innalzato alle vette del cinema d’autore, dopo tanta gavetta da comico di strada, da scavalcamontagne, e infine da ilare giullare di farse a buon mercato.
Alain Cuny celebrava con impettita magniloquenza l’abilità medianica di Fellini di condurre qualsiasi attore alla sua massima resa espressiva.
François Perrier, con affettuosa vivacità riferiva di quando, durante la lavorazione di Cabiria, fosse stato chiamato da Federico a mettere pace con Giulietta dopo un diverbio sul set. “Niente di nuovo – ridacchiava – sono sposato anch’io con un’attrice.”
Allo stato dei fatti mancano all’appello Paolo Villaggio e Roberto Benigni, i protagonisti dell’ultimo film di Fellini La Voce della Luna. Purtroppo nessuno aveva mai ipotizzato un’integrazione del filmato per una nuova edizione aggiornata. E sfortunatamente il produttore Achille Manzotti nel frattempo è uscito di scena.
Villaggio non c’è più; Benigni invece, che in tante occasioni ha parlato del suo incontro con Federico utilizzando metafore, ricordi e parole di commovente poeticità, è raggiungibile. Forse riuscirò a recuperarlo per I MESTIERI DEL CINEMA, il corposo programma filmato che, in occasione del Centenario di Fellini, il Ministero della Pubblica Istruzione ha commissionato all’Istituto Luce. Ogni capitolo è inquadrato attraverso l’opera del Maestro e le dieci puntate per ora in lavorazione saranno diramate nelle scuole di ogni ordine e grado, comprese le Accademie, gli Atenei, e gli Istituti di Cinema.
A Benigni vorremmo riservare il capitolo su L’Attore che già si annuncia come spunto ideale per una performance da collezione.
Nel frattempo accontentiamoci di assistere al film I PROTAGONOSTI DI FELLINI così come è stato licenziato nel 1995, un omaggio raro a quasi tutti gli interpreti dei capolavori dell’artista riminese, ad esclusione di Richard Basehart e Broderick Crawford passati a miglior vita.
Erano diciannove i convocati, non mancava proprio nessuno e, anche se non posso esserne del tutto certo, credo che nessun altro regista al mondo abbia potuto godere in vita di una serenata così esaltante: ascoltare la dimostrazione d’affetto corale dei suoi amati burattini.
Fellini, l’ineffabile Mangiafuoco, ne era rimasto dolcemente turbato. Così almeno aveva riferito Pietro Notarianni, che era seduto accanto a lui durante la visione della copia campione nella saletta del Cinefonico di Cinecittà; la medesima che oggi è stata trasformata, con un allestimento di lusso, in sala convegni e proiezioni, intestata con targa dorata a Federico Fellini.