Gigi Proietti da Viterbo, classe 1940, ci ha detto addio nel giorno in cui era nato. Un segno del destino e l’ennesimo dolore di un anno che, proprio oggi, ci ha portato via anche padre Bartolomeo Sorge, a dimostrazione di una maledizione che sembra non voler finire mai.
Per i nostri genitori è stato l’istrione di “Alleluja brava gente!”, dei musical e dell’epopea comica ma non troppo di Brancaleone. Per noi è stato il popolare maresciallo Rocca e, successivamente, san Filippo Neri e il vecchio cronista di nera di “Una pallottola nel cuore” che indaga sui casi freddi e irrisolti e prontamente li risolve. Ma che senso ha definire Gigi Proietti, ossia un uomo che racchiude in sé musica, cinema, teatro, la passione per Shakespeare e un’inimitabile capacità di raggiungere il vasto pubblico con un’ironia tagliente ma mai scorbutica o volgare? Proietti, per definizione, appartiene alla categoria dei personaggi che non si possono incasellare in un ruolo, etichettare a seconda delle convenienze e imprigionare nelle proprie convenzioni di cartapesta, in quanto ha trascorso l’intera vita a rompere la gabbia dei pregiudizi, a ribellarsi alla dittatura dei sapientoni, a irridere i tuttologi e a dispensare una recitazione di qualità senza mai scadere nella noia o nel dejà vu.
Ha saputo essere grande in gioventù, quando teneva la scena come pochi e incantava le platee proponendo spettacoli innovativi e irriverenti, riuscendo a far incontrare il tutto della politica che caratterizzava quella stagione con il gusto per la dissacrazione che lo ha sempre contraddistinto. Ha saputo essere grande negli anni della maturità, portando in scena un maresciallo profondo e anticonformista, in contrasto con la burocrazia, l’ordine costituito e i papaveri che antepongono la propria personale affermazione a ogni principio di umanità, ricordando a un’Italia già allora incattivita il senso della giustizia vera, contrapposta ai codici che vorrebbero racchiudere in algide norme la vita delle persone e il corso degli eventi. Ha saputo essere grande negli ultimi anni, interpretando un ruolo adeguato alla sua età e facendosi valere anche come lettore di brani e protagonista delle bellissime trasmissioni di Alberto Angela, senza mai rendersi stucchevole o scadere in un presenzialismo dissennato.
La bravura di Gigi Proietti risiede nel fatto di non aver mai recitato una parte che non fosse la sua, di essersi sempre astenuto da ogni commercializzazione, pur recitando in una miriade di film, e di aver conservato brillantezza, grinta e amore per il prossimo e per il,proprio mestiere anche quando ormai era diventato un mostro sacro.
Mai una parola fuori posto, mai un eccesso, mai una mancanza di garbo, mai un cedimento a questa stagione di pagliacci che si credono istrioni ma non sanno tenere la scena, si credono originali ma sono solo posticci, si credono rivoluzionari ma non sono altro che la brutta copia di mille imitazioni precedenti.
Proietti scompare all’improvviso, tradito dal cuore, e a noi tornano in mente i suoi inizi, quando ironizzava sull’accostamento al mito Frank Sinatra inventando la battuta “Frank Sinutra”, per prendere in giro la sua magrezza, e travolgeva tutto e tutti con la sua carica di innovatore mite e bonario. Ripeté la battuta nel 2000, in “A me gli occhi, please” e fu nuovamente un successo straordinario.
Se dovessi indicare il Proietti che ho amato di più, direi tuttavia quello dell’avvocato Porta, in cui si concentrano tutte le qualità di un uomo in perenne lotta contro i pregiudizi, le apparenze e le esagerazioni, capace di chinarsi sul dolore degli altri senza mai scadere nell’arrendevolezza o in quei toni da santone che, alla lunga, sanno tanto di inganno.
Addio Gigi, ti ho voluto bene.
P.S. Quarantacinque anni fa, all’Idroscalo di Ostia, veniva assassinato Pier Paolo Pasolini: un intellettuale di borgata, un genio poliedrico, uno scrittore corrosivo, un regista che ha firmato capolavori destinati a restare nella storia del cinema mondiale ma, soprattutto, un uomo scomodo, troppo avanti per un’Italia ostaggio della Strategia della tensione e delle violenze inumane degli anni Settanta. Probabilmente, aveva capito in anticipo l’essenza della P2, turbando equilibri intoccabili e rivelando, di fatto, nomi e cognomi che hanno sempre agito nell’ombra e non hanno mai tollerato che si indagasse su di loro. A Pasolini dobbiamo un tributo di gratitudine enorme. Chissà cosa direbbe di questo mondo contemporaneo, in cui, oltre a essere scomparse le lucciole, si è completamente perduta quell’umanità per cui è vissuto e, probabilmente, è stato ucciso.
Roberto Bertoni
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