Oggi è in corso una nuova battaglia in questa lunga guerra al Covid-19, una guerra che possiamo vincere solo insieme, senza lasciare nessuno indietro e proteggendo i più deboli. Per farlo bisogna evitare di trattare gli anziani come membri di una categoria socio demografica che va tutelata considerandola, però, un mondo a parte. La vecchiaia non è una malattia e dobbiamo, invece, promuovere un’alleanza tra le diverse generazioni, che ci permetta di concentrarci sulla cura e la salvaguardia di tutti i soggetti fragili, come i malati cronici e i disabili, i quali, soprattutto in questo periodo, soffrono più degli altri, sia fisicamente che psicologicamente. Secondo l’Istat oggi in Italia ci sono quasi tre milioni di persone non autosufficienti, la maggioranza di loro sono persone anziane, ma qualsiasi età abbiano sono i primi che vanno protetti e non lasciati soli.
L’emergenza Covid ha evidenziato soprattutto due cose: primo che le persone anziane fragili sono il punto più vulnerabile del SSN e, secondo, che l’Assistenza Domiciliare Integrata e la medicina territoriale rappresentano la vera priorità di investimento in sanità. Dobbiamo puntare sull’ADI per diminuire la pressione sugli ospedali, permettendogli di concentrarsi sulla fase acuta delle malattie, ma dobbiamo farlo, soprattutto, per realizzare una reale continuità assistenziale, che è possibile solo rendendo il Sistema Sanitario Nazionale più prossimo ai cittadini e ai loro bisogni. Su 14 milioni di over 65 che vivono nel nostro Paese, oggi usufruiscono dei servizi ADI soltanto 364 mila persone, ovvero il 2,7 per cento. Davvero troppo poco: siamo primi in Europa per numero di anziani, dobbiamo diventare presto anche il primo Paese per numero di assistiti a domicilio.
Nel cercare di raggiungere questo obiettivo è fondamentale tener sempre presente un principio che ci insegna Papa Francesco: il sostantivo persona viene prima dell’aggettivo malata. Ogni riorganizzazione nella sanità, quindi, deve partire dalla persona e rispondere al crescente bisogno di cure di lungo termine sia con maggiori servizi di assistenza domiciliare, che con una buona e diffusa residenzialità assistita (RSA). Le buone RSA esistono e sono un bene da tutelare, perché si prendono cura di quei malati cronici più gravi che non sono trattabili tra le mura domestiche. Oggi ci sono circa 300 mila persone nella residenzialità: il Covid ci spinge a migliorare, a cercare nuove soluzioni e nuovi modelli, ma è un grave errore demonizzare l’esistente. Alcuni giorni fa il professor Marco Trabucchi, presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, ha paragonato le RSA a castelli che, mentre nella scorsa primavera potevano resistere all’assedio del virus forti anche di una certa solidarietà pubblica, oggi sembrano castelli abbandonati, lasciati vuoti da chi governa, dal personale che viene assunto negli ospedali, dai cittadini che accusano queste strutture di una sostanziale incapacità gestionale.