Anche solo scorrendo i titoli dei film premiati è subito evidente come sia predominante, nel panorama di questo festival, la presenza di pellicole che virano il genere fantascientifico verso un deciso richiamo al cinema dell’orrore, proiettando dentro l’uomo, e non nello spazio esterno, il senso di viaggio e di ricerca che il concetto stesso di universo ha sempre rappresentato. I mostri generati dalle nostre paure: paure che la tecnologia ha portato su livelli mai sperimentati prima. Ne è un esempio calzante il film di Anthony Scott Burnes Come True, vincitore della menzione speciale Premio Asteroide, che forse avrebbe meritato di vincere il festival senza nulla togliere al bellissimo Sputnik. La protagonista, Julia Sarah Stone, con uno sguardo freddo e androgino e una sensualità intrigante ci costringe a scivolare nel profondo delle paure di ognuno. Il timore di addormentarsi per scoprire, tra le crepe della propria sensorialità, un abisso nel tempo, nello spazio, un varco che ci proietti, cadendo lentamente nel nostro subconscio, nella reificazione della paura. Così la corsa nel sentiero del bosco illuminato da una torcia, mentre ovunque occhi bianchi sembrano attendere il nostro passaggio per portarci via, termina in un amplesso dentro un luogo altro, con uno scarto improvviso tra esterno e interno, tra buio e luce, che solo per un istante ci fa credere in un lieto fine. Ma le cose non sono mai come sembrano: basta una chiamata allo smartphone per fare implodere la realtà e porci di fronte ad una visione di sangue che anticipa i titoli di coda.
Con il terrore più estremo e la coscienza della possessione non solo biologica, o meglio dell’interazione con un essere altro, gioca Sputnik, film russo ambientato in una base segreta durante degli anni Ottanta. La pellicola riscrive o aggiorna film come Alien o La Cosa, incrementandone l’angoscia attraverso una lettura analitica della psiche umana, condotta dalla neuropsicologa Tatiana Klimova che scopre la presenza di un simbionte (creatura più complessa del parassita presente negli altri due film). Si può accettare un mostro dentro di sé per sopravvivere, si può convivere con esso e insieme mantenere la propria umanità, è la domanda che pone il regista Egor Abramenko. La risposta potrebbe apparire scontata se non si considerasse l’istinto di sopravvivenza. Alla fine forse il film decide per una soluzione che assolva l’essere umano e chiuda con una speranza.
Ancora un horror, questa volta esplicito, è Post Mortem. Titolo riferito al lavoro del protagonista che, sfuggito alla morte in trincea durante la Prima Guerra Mondiale, si trova a fotografare altri morti, questa volta causati dall’epidemia di influenza spagnola che flagellava, insieme ai cannoni, l’Europa attorno al 1918. Ambientato tra dolci colline di una Ungheria arcaica, religiosa e incontaminata, tra case con le facciate dipinte in calce bianca e interni ora pervasi dalla luce del sole ora immersi in una oscurità dell’anima, dove i morti non vogliono più andarsene, congelati nella loro fissità impotente, eppure ancora pronti a gridare lo sgomento per lamentarsi del ghiaccio che impedisce loro di essere sepolti. I morti paiono non voler morire del tutto e i vivi terrorizzati cercano segni del demonio, incapaci di credere fino in fondo alla compenetrazione tra i regni. Tomas e Anna, una ragazzina orfana che come lui è sfuggita alla morte, tra anime troppo attaccate alla carne per lasciarla e spiriti che cercano chi indichi loro la strada per andarsene, compiranno un viaggio nel profondo dell’orrore fino allo spettacolare finale che, in un confondersi di piani, riporterà, forse, la pace tra i vivi e i morti. Il film del regista Péter Bergendy è il primo di genere horror prodotto in Ungheria ed è sorretto da una fotografia straordinaria sebbene a tratti appaia un po’ macchinoso.
The Blackout, film d’azione, spettacolare e avvincente, merita certamente una menzione d’onore all’interno del palinsesto della manifestazione. Impostato su alcuni cliché del genere fantascientifico: il manipolo di militari che si oppone a una invasione, i corpi umani disumanizzati e usati come macchine, come zombie controllati da una potenza superiore, si sviluppa in una lunga sequenza di combattimenti feroci che culminano con un colpo di scena finale a lasciare aperto ogni possibile sviluppo.
Totalmente diverso è il tema di The Trouble with Being Born che, in un vicino futuro, ambienta la vicenda di un androide dalle sembianze umane. Film con un potenziale di scrittura altissimo sebbene di difficile inserimento all’interno di un circuito commerciale per il tema trattato spesso coincidente con alcune riflessioni sulla pedofilia. Attraverso la trasformazione del sesso, l’androide è prima una bambina e poi un maschio, e il suo difficile passaggio da una psiche all’altra, la sua rigenerazione o meglio riprogrammazione, ci mostra come in fondo la stessa macchina non possa prescindere, per assomigliare all’uomo, da una propria specifica fisionomia psicologica. Il film è disturbante per la freddezza con la quale è splendidamente girato dalla regista austriaca Sandra Wollner, per la poesia che pervade ogni fotogramma e per la ricerca di una estetica minimale e raffinata che ricorda la connazionale Jessica Hausner.
Restiamo in attesa per il prossimo anno della voce di Lorenzo e dell’assistente vocale che all’urlo «Raggi Fotonici» ci portino ancora in altri mondi fantastici e a scoprire nuovi film che arricchiscono la nostra vita di bagliori e tremori. Sperando di poterlo fare tutti insieme fisicamente a Trieste.