Ahmet Altan, 1500 giorni di carcere in Turchia ma la prigionia non lo ha imbavagliato

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“Sono uno scrittore. Non sono né dove sono, né dove non sono. Ovunque voi mi rinchiudiate, viaggerò per il mondo sulle ali dei miei pensieri”.

È così che, da 1500 giorni, Ahmet Altan, 70 anni, combatte la prigionia e resiste a un regime repressivo che lo ha rinchiuso in un carcere in Turchia per imbavagliarlo, senza riuscirci, come ha fatto con centinaia di giornalisti e intellettuali sgraditi al presidente Recep Tayyip Erdogan.

Accusato di aver inviato “messaggi subliminali” durante una trasmissione televisiva per favorire il tentativo di golpe del 15 luglio del 2016 in Turchia, il 12 settembre Altan viene sottoposto a un fermo giudiziario con le imputazioni di “aver tentato di rovesciare il governo della Turchia” e di “appartenenza a una organizzazione terrorista”.
Imprigionato e processato senza prove, il 12 febbraio del 2017 viene condannato all’ergastolo aggravato, l’equivalente del 41 bis italiano: il carcere duro per i mafiosi.

Accuse talmente surreali e ridicole che la Corte Suprema, dopo un lungo iter giudiziario, annulla la sentenza e ne ordina la scarcerazione dopo tre anni di ingiusta prigionia.

Ma il 12 novembre, con nuove seppur ridimensionate accuse, lo scrittore, tra le più autorevoli voci turche, nel suo Paese e a livello internazionale, viene nuovamente arrestato.

In tutti questi anni di assurdo e inconcepibile accanimento, Ahmet non ha mai mutato il suo pensiero, tanto meno ha smesso di manifestarlo.

Privato di tutto, persino della sua faccia, come lui stesso racconta in uno dei libri nati tra le quattro mura che lo imprigionano fisicamente, lo scrittore ha continuato a scrivere.

“Quando mi sono ritrovato da solo per la prima volta mi sono reso conto che la mia faccia era scomparsa. A un tratto mi sentii come se mi avessero sbattuto contro una parete. Come tutti, lì, mi guardai intorno in cerca di me stesso. Non c’ero. Era come se mi avessero cancellato dalla vita e buttato via” scrive riferendosi alla mancanza di uno specchio nella cella dove è costretto a trascorre quasi la totalità delle ore della giornata.
Una descrizione struggente del suo stato d’animo, come quella del  dolore per le manette che i detenuti sono costretti a portare quando escono dal carcere per andare in tribunale per le udienze o per delle visite mediche.

“Quando si cammina ammanettati ci si accorge che per camminare non servono solo le gambe ma anche le braccia. È piuttosto difficile mantenere l’equilibrio senza muovere le braccia. A ogni movimento le manette di ferro si stringono. E fa male” racconta nel libro “Non rivedrò più il mondo”,  che non è solo il diario intimo della sua quotidianità in prigione ma la descrizione della sua unica via di fuga da quell’inferno.

Ahmet Altan ha deciso di non lasciarsi schiacciare dal peso della vita spersonalizzante e umiliante del carcere perché, come lui stesso racconta di sé, da un lato c’è un corpo di carne, ossa, sangue, muscoli e nervi in trappola. Dall’altra parte, una mente che non si cura e ride di ciò che può accadere a quel corpo. Una mente che guarda dall’alto ciò che sta avvenendo e ciò che potrebbe avvenire. “Credersi intoccabile e quindi essere intoccabile”.

No, il carcere non ha mai imprigionato Ahmet.
Non possono essere le quattro mura di una cella a fermarlo.

“Finora non mi sono mai svegliato in carcere. Neanche una volta. Sono uno scrittore. Non mi trovo né dove sono né dove non sono. Potete mettermi in carcere ma non tenermi in carcere. Io faccio una magia. Passo attraverso i muri” ci ha  fatto sapere attraverso i suoi scritti intrisi di forza e di speranza.
Quella speranza di vederlo presto libero che accomuna tutti noi che non smetteremo mai di chiedere la sua scarcerazione e quella di centinaia di altri prigionieri politici detenuti ingiustamente in Turchia.


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