Più che mai viva nel mondo intero, l’attesa per l’esito delle elezioni presidenziali del prossimo martedi 3 novembre negli Stati Uniti coinvolge specialmente l’America Latina. Che nei rapporti profondamente disuguali e nondimeno reciprocamente invasivi con il nord del continente, alla sua esorbitante pressione politico-economica di carattere imperiale oppone quella migratoria, spesso illegale e sempre cospicua (la disperazione è una molla che rende inesauribile l’impulso dell’emigrante). Un’interazione ormai storica, i cui effetti collaterali investono tutti gli aspetti della vita sia individuale sia collettiva dell’America intera, fino a configurare uno scambio culturale tanto caotico da risultare periodicamente un fattore primario di tensioni e di crisi; ma nei casi più felici anche di reciproco sviluppo.
Pur provenienti da paesi e storie diversi, ma riuniti e fondamentalmente assimilati dalla comune lingua spagnola, i latinos costituiscono attualmente la prima minoranza etnico-culturale degli Stati Uniti. E dunque anche un elettorato che da qualche anno ha superato per numero quello degli afro-americani: sono 32 milioni gli aventi diritto al voto (il 13,3 per cento di una popolazione totale che somma 330milioni di statunitensi). Manifesta rivendicazioni omogenee oggi dichiaratamente negate: parità effettiva dei diritti con i cittadini nativi. In primo luogo l’apertura delle politiche immigratorie, i ricongiungimenti familiari che Donald Trump ha lacerato con una crudeltà senza precedenti; accesso alla protezione sanitaria e ai diritti sindacali ulteriormente indeboliti dalla crisi.
Tanto Trump quanto Biden, consapevoli della loro importanza, se ne disputano il favore fino all’ultimo strillo della campagna elettorale. Salvo in Florida, dove secondo tradizione e sondaggi i circa due milioni di cittadini d’origine cubana voterebbero prevalentemente per i candidati repubblicani, controbilanciati dai portoricani più inclini a sostenere i democratici, ci si aspetta che nel complesso i latinos preferiscano largamente Biden cosi come i candidati democratici e dei partiti minori alleati per Camera e Senato. Le loro problematiche sociali e valori personali li avvicinano agli interessi dei lavoratori dipendenti e alla classe media dei grandi agglomerati urbani, che sebbene rarefatti dalla dissoluzione dell’industria tradizionale costituiscono pur sempre un punto di forza del fronte democratico. In Texas, Arizona, New Mexico, Pennsylvania, il voto latino potrebbe essere determinante.
Né saranno meno rilevanti gli effetti diretti della consultazione di martedi sull’evoluzione dei governi latinoamericani. Per alcuni di essi ne deciderà il prossimo futuro. La pronosticata (e nondimeno incerta) vittoria di Biden potrebbe far precipitare e comunque modificherebbe gli incerti equilibri che reggono la Presidenza dell’ex capitano e il tutt’ora sacerdote evangelico Jair Bolsonaro in Brasile. In bilico tra l’esasperato individualismo fondamentalista -post-verità e post-politica- suo proprio e dei fedelissimi (una militanza definitivamente farneticante, negazionista e cospirativa); e la rete militare, sentinella conservatrice dei grandi interessi oligopolistici ed elemento strutturato del governo, pertanto essenziale. Il Brasile rappresenta un caso estremo per l’identificazione fideistica di Bolsonaro nella politica di Trump e nella sua persona, tuttavia non unico.
Uno scossone accentuato dalle conseguenze del Covid viene previsto anche in Colombia, per il sostanziale immobilismo in cui ultimamente è precipitata la politica di Ivan Duque e la crisi che ne consegue. Il suo silenzioso (ma sanguinoso) boicottaggio degli accordi di pace raggiunti con la guerriglia delle FARC dal precedente capo di stato, Juan Manuel Santos, ha aggravato il livello di violenza e reso ancor più brusca la frenata dell’economia. Ciò in una regione -quella settentrionale del subcontinente- già gravemente dissestata dal fallimentare governo autoritario di Nicolas Maduro in Venezuela, da cui sono emigrati oltre il 10 per cento degli abitanti, 4milioni negli ultimi 5 anni, tra i quali un milione di bambini (Unicef). Trump ha solo esasperato le tensioni nella zona, la sua sconfitta potrebbe riaprire spazi di reale e fattivo dialogo.
Persino il Messico, il cui presidente Andrés Manuel Lopez Obrador (AMLO), un nazionalista-populista di sinistra non certo sprovvisto di disinvoltura politica (che lui chiama pragmatismo e i suoi critici opportunismo), ha saputo trovare una qualche intesa-capestro con Trump, senza più la sua pistola puntata alla tempia potrebbe riordinare il groviglio in cui è precipitata l’economia, malgrado qualche recentissimo segno di ripresa di produzione e consumi. Paese di sosta e ristoro dell’ininterrotta corrente migratoria che da tutto il povero e dissestato centroamerica preme sulla frontiera con gli Stati Uniti, il Messico potrebbe giovarsi delle pur ben circoscritte flessibilità lasciate intravvedere da Biden nel caso in cui riesca effettivamente a entrare alla Casa Bianca (e con lui, però, anche una maggioranza democratica al Congresso).
C’è poi da credere che se lo stesso Trump non ha potuto opporsi alla decisione della Federal Reserve (rispettive prerogative a parte) di mantenere vicino allo zero il tasso d’interesse, per favorire investimenti e consumi, non deprimere ulteriormente l’economia degli Stati Uniti; a maggior ragione Biden sarebbe favorevole a una stabilizzazione dei cambi essenziale per non aggravare e possibilmente favorire il riordino dei debiti pubblici latinoamericani e il rilancio delle loro esportazioni. L’Argentina, in tal caso, vedrebbe ampliarsi i margini di ripresa economica e contenimento dell’inflazione. E minori oscillazioni dovrebbero affrontare anche i governi che si affacciano sul Pacifico, a cominciare dal Cile impegnato almeno per i prossimi 2 anni nel processo di rinnovamento costituzionale voluto dal voto-valanga al Referendum della scorsa domenica 25.