C’è – finalmente – una umanità dolente e partecipe, vinta sì, emarginata ma capace di risorgere dai propri incendi interiori in Roubaix, une lumière di Arnaud Desplechin, presentato in concorso al Festival di Cannes dell’anno scorso. Il decimo film del cineasta francese naviga sottocosta, evita gli accenti brutali e spettacolari dei noir preferendo alla spicciola analisi sociologica – poliziotti buoni e/o cattivi, periferie comunque violente e ribelli, protagonisti tutti d’un pezzo belli e maledetti – uno sguardo più antropologico incentrato sulle relazioni interpersonali, sugli affanni esistenziali che tutti trascinano in una Roubaix notturna e dimessa – la sua città natale – che si erge dunque ad exemplum dell’humana conditio. Roubaix si ispira a un fatto di cronaca che Mosco Boucault, nel 2008, aveva trasformato in un documentario di grande impatto mediatico. “Ho considerato il documentario originale – ha detto proprio Desplechin – come un testo in tutto e per tutto, davanti a cui mi sono inchinato, riprendendolo tale e quale, a parte infime aggiunte. La tv non fa che mettere alla porta il testo. Io invece lo rispetto. L’arte della mise en scène è di servire un testo.” Il riferimento al mondo del teatro è d’obbligo, ed è probabilmente legato all’esperienza alla Comédie-Française, dove aveva curato la regia de Il padre di Strindberg. “Per la prima e unica volta nella mia vita – confessa il regista – ho solidarizzato con due criminali, riconsiderando le parole crude delle vittime-colpevoli come la più pura delle poesie”. In una città reale, “austera e violenta”, nella quale alla floridezza industriale di un tempo si è sostituita una povertà diffusa, abitata da un sottoproletariato di estrazione diversissima (portoghesi, polacchi, italiani, algerini: un melting pot che sa tanto di apartheid) dall’orgoglio si è arrivati alla vergogna: lo stratagemma della voce narrante che a volte irrompe, serve proprio ad aprire squarci di storia collettiva e personale all’interno della narrazione che la regia incentra, rovesciando un cliché, non tanto sulle vittime quanto sulle due donne Claude (Léa Seydoux) e Sara (Marie Carpentier) accusate di un incendio e di un omicidio: amiche, amanti (?), tossiche, inattendibili. L’impasse della città – sfolgorante nella sua crepuscolare bellezza notturna umida e tiepida – è anche quello dei poliziotti e delle due protagoniste: tutti sono gettati in un mondo senza bellezza, dalla fosca atmosfera purgatoriale, costellato da risse, rapine, stupri, fughe, figli difficili che scappano, piccola delinquenza suburbana si muovono spinti quasi da una ineluttabilità inespugnabile: tutti ricordando di avere contato qualcosa e di non essere più niente. E l’incendio da cui prende avvio la vicenda è metaforicamente interiore: quello che brucia continuamente i ricordi, i rimpianti, le nostalgie. Su tutti campeggia il commissario di origine algerina Yacoub Daoud (un Roschdy Zem davvero all’altezza, Premio César come miglior attore), personaggio quasi alla Simenon – “Maigret era enorme e di ossatura robusta. Muscoli duri risaltavano sotto la giacca e deformavano in poco tempo anche i pantaloni più nuovi” – cui spetta un difficile ruolo di mediazione. Al poliziotto cinico e sprezzante di tanta facile letteratura cinematografica, Desplechin oppone un uomo saggio, dalle abitudini quasi monacali – non fosse per la passione dei cavalli, simbolo di libertà e bellezza – che non alza quasi mai la voce ma che accoglie la sofferenza propria e altrui con una sensibilità ammirevole. Ma non c’è accelerazione cinematografica nella descrizione di questo piccolo déluge, né compiacimento, solo l’oggettiva constatazione di vivere e di lavorare in una città che per tre quarti è classificata come “zona sensibile” e in cui metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Lì Daud cerca, si affanna filosoficamente, vuole restituire agli indiziato ciò che li rende umani: il suo è un com-patire. Ad una lettura superficiale Roubaix, una luce potrebbe sembrare la risposta “politicamente corretta” a 36 Quai des Orfèvres di Olivier Marchal (2004) o al recentissimo Les Misérables di Ladj Ly. Ma Desplechin si sottrae alla violenza esibita, ai lacrimogeni e agli inseguimenti, agli stereotipi, presentandocela quasi per ellissi anche se a volte, sottotraccia, si intravedono le pratiche invasive della polizia francese nei confronti di un sospettato e il film pare disperdersi nei mille rivoli delle storie private. Eppure Daud riesce a imbrigliarle tutte e a domarle come un cavaliere atipico, un antieroe virgiliano che porta sulle sue spalle, mentre tutto sembra crollare, il peso della sua memoria e della sua pietas: “a volte non sappiamo perché – dice – ma ad un tratto tutto si illumina”.
Roubaix, une lumière
- Regia: Arnaud Desplechin
- Cast: Roschdy Zem, Antoine Reinartz, Sara Forestier, Léa Seydoux
- Genere: Thriller, Drammatico, colore
- Durata: 119 minuti
- Produzione: Francia, 2019
- Distribuzione: No.Mad Entertainment
- Data di uscita: 01 ottobre 2020