42 condanne su 48 imputati e 231 anni complessivi di carcere, compresi nove patteggiamenti. Esiste, eccome, una cosca di ‘ndrangheta in Emilia Romagna, con base a Brescello (RE), che ha continuato a compiere azioni losche anche dopo il gennaio 2015, quando un centinaio di arresti tagliò le gambe alle famiglie mafiose di origine cutrese. Lo ha stabilito a Bologna nel tardo pomeriggio di lunedì 26 ottobre, al termine del rito abbreviato nel processo Grimilde, il giudice per le indagini preliminari Sandro Pecorella, accogliendo l’impianto accusatorio e la quasi totalità delle richieste presentate dal sostituto procuratore antimafia Beatrice Ronchi.
Le pene più pesanti, 20 anni di carcere a testa (nonostante lo sconto dell’abbreviato), vanno ai due pilastri della associazione mafiosa: Salvatore Grande Aracri detto “Calamaro”, 41 anni appena compiuti, nipote del boss Nicolino recentemente condannato ad un nuovo ergastolo per gli omicidi commessi a Reggio Emilia nel 1992, e Giuseppe Caruso, 60 enne figura di spicco della vita pubblica piacentina, funzionario della Agenzia delle Dogane e capogruppo in consiglio comunale a Piacenza per conto di Fratelli d’Italia all’epoca dei fatti. Assieme rappresentano il paradigma perfetto dell’abbraccio nefasto tra gli uomini della ‘ndrangheta calabrese, decisi a non mollare il boccone prelibato delle attività economiche nel nord Italia, e le brame di ricchezza e potere di personaggi da copertina che cedono alle sirene della mafia, sposandone la cultura e le pratiche. Anche il fratello Albino Caruso, di un anno più vecchio di Giuseppe, ha incassato una severa condanna a 12 anni e 10 mesi di reclusione. Mentre il padre di Salvatore, Francesco Grande Aracri, dovrà vedersela con la Corte nel rito ordinario che inizierà a Reggio Emilia a dicembre. Altri membri della infinita famiglia Grande Aracri residente a Brescello escono condannati dal rito abbreviato, a cominciare dal capo dei capi Nicolino (un anno di carcere), coinvolto nella colossale truffa ad una azienda vinicola di Treviso, la Vigna Dogarina srl, alla quale la cosca Muto/Grande Aracri sfila tonnellate di vino mostrando credenziali false. Ad esempio una fideiussione da tre milioni di euro apparentemente emessa dalla Banca Barclays nel 2013. Peccato che fosse falsa, mentre il milione di bottiglie di prosecco portate via sotto il naso agli amministratori della Dogarina erano vere. Colpevoli per il giudice anche uno dei capi cosca di Aemilia, Alfonso Diletto (4 anni e 3 mesi), e i Muto di Brescello e Gualtieri (RE), altra grande famiglia di ‘ndrangheta colpita dalla sentenza: quattro condannati per 22 anni di carcere.
Il cuore di Grimilde è una “attrazione fatale” che porta imprese del Nord ad affidarsi alle ricette della ‘ndrangheta per uscire da situazioni difficili. C’è ad esempio una enorme fornitura di riso, per oltre sei milioni di euro, che la Riso Roncaia spa di Castelbelforte, in provincia di Mantova, deve consegnare alla AGEA, l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura, sulla base di un bando della Comunità Europea. Riso che dovrà andare a popolazioni povere e bisognose. L’impresa mantovana non è in grado di arrivare in tempo con la consegna di una tranche del 25% entro il mese di luglio 2015, rischiando così di perdere un accredito di 2,2 milioni di euro. A risolvere il problema ci pensano Giuseppe Caruso e Salvatore Grande Aracri, che avevano già aiutato la società, in difficoltà finanziaria e gravata di debiti, ad ottenere linee di credito. Caruso, intercettato, si vanta addirittura di avere scomodato l’amministratore delegato di Unicredit Francesco Ghizzoni per risolvere il problema dei debiti della Roncaia.
I capi di imputazione del processo e le condanne coinvolgono liberi professionisti emiliani con i loro servizi e prestanome del nord per le false intestazioni societarie, che interessano anche le due principali e più affollate (prima del coronavirus) discoteche di Reggio Emilia, Italghisa e Los Angeles. Poi c’è il consueto corredo di minacce e intimidazioni, falsi e truffe, estorsioni e recupero crediti, furti e sfruttamento dei lavoratori. Carpentieri e muratori in particolare, reclutati dal vecchio boss Francesco Grande Aracri, che insegnava al figlio Salvatore come si ottiene il meglio dal caporalato e andava personalmente a Bruxelles per gestire le attività che varcavano i confini. Si avvalevano anche di una consulente del lavoro i mafiosi, per le loro intestazioni fittizie: Monica Pasini, originaria di San Secondo in provincia di Parma, condannata a due anni.
Fonte: CGIL Emilia Romagna