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Se la critica politica è vietata in fatto di immigrazione. Il caso Fermo

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E’ il 5 luglio del 2016 a Fermo nelle Marche. E’ l’estate che farà registrare il maggior numero di sbarchi di richiedenti asilo e quella che fu definita come la più grave per “l’emergenza immigrazione”, immettendo nel tessuto connettivo della sensibilità nazionale un germe razzista poi cavalcato da almeno un paio di partiti politici. Quel 5 luglio Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, richiedente asilo è a passeggio insieme alla moglie Chinyere in via XX Settembre. Passa di lì anche Amedeo Mancini, un ultrà vicino ad ambienti della destra profonda del posto, c’è una colluttazione che verrà ricondotta ad una frase razzista nei confronti della donna, cui il marito ha reagito. Sta di fatto che Emmanuel va in coma irreversibile e poi muore. Mancini, in seguito, patteggerà la pena a 4 anni di reclusione per omicidio preterintenzionale del migrante nigeriano. Ciò che ha preceduto e accompagnato il procedimento penale a carico di Mancini è in linea con il clima che si era creato quell’estate e che poi ha accompagnato la politica sui migranti in Italia. Ossia: sfilze di post razzisti e prese di posizione contro questo tipo di valutazione riconducibile al fascismo e al razzismo più becero. A qualcuno è costato caro entrare in questo dibattito. A Massimo Rossi per esempio, che in un post aveva parlato, senza citare il nome, di una cosiddetta supertestimone nel procedimento, la quale aveva affermato che nell’aggressione l’omicida si fosse solo difeso dalla vittima, con tutto il corollario che ne era seguito in termini di scontro tra razzisti e non. Il post, del 7 luglio 2016, quindi inerente la fase iniziale delle indagini e inerente un altro post della testimone, dice questo:” Ed ora, a placare il disagio di quelli che ‘io non sono razzista ma…’che con la loro ipocrisia considero i mandanti dell’omicidio di Emmanuel, esce provvidenziale una supertestimone la quale fornisce una versione opposta a quella di Chimiary. Secondo lei sarebbero stati loro ad aggredire ‘per quattro o cinque minuti’ il povero ultras neofascista alto 1,90 con la passione del pugilato”. Dunque una considerazione sulle affermazioni di una testimone che aveva dichiarato ciò che avrebbe visto anche ai media locali oltre che agli inquirenti. Per le considerazioni fatte in merito e nel post Massimo Rossi, già presidente della provincia di Ascoli Piceno e di Fermo, nonché sindaco di Grottammare per due mandati, è stato condannato pochi giorni fa per diffamazione, non essendo stata riconosciuta la scriminante del diritto di critica politica al suo post.
La decisione del Tribunale di Ascoli Piceno mette in discussione alcuni principi basilari garantiti dall’articolo 21 della Costituzione per tutti i cittadini italiani e riguarda, a suo modo, il concetto di libertà di espressione, dunque anche di critica politica in Europa, essendo un principio richiamato in maniera costante dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Pure al di là di come andranno i successivi gradi di giudizio di questa storia, resta un esercizio utile analizzare cosa produce una notizia grave come l’omicidio di un richiedente asilo da parte di un esponente di destra, poiché questo mix di elementi sociali e culturali è parte integrante della storia incardinatasi a Fermo, nelle Marche, la regione tranquilla come la definisce un celeberrimo spot dei trasporti nazionali. Va ricordato cosa dice il gup del Tribunale di Fermo nel patteggiamento: la pena è stata concordata riconoscendo l’aggravante razziale, quindi non si può negare che la colluttazione affondò le radici in quel clima dell’estate del 2016. Ciò che è accaduto dopo la condanna di Rossi per diffamazione è la prova finale di quanto sia difficile in Italia un confronto sul tema dell’immigrazione e dell’arrivo di rifugiati politici. L’ex sindaco di Grottammare, uno dei più noti e convinti esponenti della sinistra delle Marche, è finito nel tritacarne dei social come il persecutore della testimone del delitto del 5 luglio, in un guazzabuglio superficiale della ricostruzione dei fatti e dei verdetti giudiziari che rimette, di nuovo, in discussione il rispetto dell’articolo 21 della Costituzione. Il quale non si presta a strumentalizzazioni, esso è infatti garanzia di libertà di espressione ma non di insulto e nemmeno il paravento per limitare la critica politica e/o giornalistica. Lo “strano caso del signor Rossi”, come si potrebbe definire questa storia, riporta a tutti noi la necessità di ritrovare il rispetto della Costituzione e delle opinioni, senza stravolgere i fatti.

(nella foto Massimo Rossi)


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