Dalla Bielorussia alla Bolivia, passando per la Francia, la Nuova Zelanda, gli Stati Uniti e la Thailandia, il mondo scosso dall’emergenza Covid è totalmente diverso rispetto a qualche mese fa. Siamo al cospetto di un pianeta assolutamente sconvolto, basato su equilibri, o per meglio dire disequilibri, impensabili solo all’inizio di quest’anno ed è dovere dell’informazione prenderne atto e comportarsi di conseguenza.
Se bisogna riscontrare un limite nel giornalismo italiano, è senz’altro quello di essere troppo ombelicale, troppo incentrato su questioni cui viene attribuita un’importanza che in realtà non possiedono, troppo autoreferenziale e popolato da personaggi la cui rilevanza, al di là delle Alpi, è pari a zero.
Il ruolo dell’informazione, in questo tempo di crisi planetaria, in cui davvero il battito d’ali di una farfalla all’altro capo del mondo può sconvolgere le nostre certezze, dev’essere quello di affrontare ogni questione sotto molteplici prospettive, dando voce a tutte le opinioni democratiche e portando i cittadini a conoscere i protagonisti di questa fase storica.
Bisogna occuparsi, ad esempio, di quanto sta accadendo in Bielorussia, dove una cittadinanza arrabbiata e combattiva ha finalmente raggiunto un livello adeguato di coscienza civile e sta fronteggiando l’autunno di un despota asserragliato nel suo bunker, ormai privo del consenso necessario per governare ma determinato a resistere strenuamente a ogni tentativo di sostituirlo in maniera democratica. Lukashenko è l’ultimo dittatore rimasto in Europa, un personaggio esecrabile che, in ventisei anni di permanenza al potere, ha impedito al suo paese di modernizzarsi e prendersi verso il futuro, rinchiudendo la Bielorussia in una sorta di prigione, fatta di solitudine, disuguaglianze e adesso anche violenza, che la pandemia ha reso evidente a tutti, ponendo il regime di fronte alle proprie responsabilità e creando le premesse per una caduta che avverrà comunque, al netto di una resistenza tanto protervia quanto, probabilmente, vana.
E che dire della Bolivia che, dopo la destituzione di Evo Morales, ha resistito a ogni tentazione regressiva ed eletto il socialista Luis Arce, ossia un continuatore delle buone politiche di Morales contro l’imperialismo che minaccia, da sempre, le ragioni e la vita del Sudamerica?
Senza dimenticare ciò che è accaduto in Francia, dove un professore è stato decapitato da un estremista ceceno per aver mostrato le vignette di Charlie Hebdo su Maometto, rendendo evidente a tutti che la difesa della laicità e della satira nell’Occidente del Ventunesimo secolo è tornata d’attualità, come sono tornate d’attualità tante battaglie che credevamo appartenere ormai al passato. Sotto attacco sono, infatti, i nostri valori fondativi, le ragioni dell’europeismo, della convivenza pacifica, della tolleranza e del rispetto per il prossimo, messe a repentaglio da un’insofferenza globale che gli squilibri venutisi a creare hanno acuito e che la pandemia ha portato a un livello insostenibile. Sono anche questi i motivi che hanno premiato il buon governo della labourista Jacinda Ardem, confermata alla guida della Nuova Zelanda attraverso un risultato straordinario che induce a sperare in un cambiamento del vento globale ma, soprattutto, a riflettere sul fatto che il bisogno di giustizia sociale stia finalmente cominciando a coniugarsi con politiche all’insegna della protezione e della tutela dei più deboli, senza tuttavia scadere nel nazionalismo abietto e pericoloso che abbiamo visto all’opera negli ultimi quattro anni. Quattro anni nei quali la presidenza di Donald Trump ha ampliato le distanze fra le due sponde dell’Atlantico, isolato l’America, indebolito l’Europa, provocato contrasti pericolosi con la Cina, messo in ginocchio il Medio Oriente e incrinato i rapporti con la Russia, oltre a condurre una nazione già prima in guerra con se stessa sull’orlo di un conflitto fratricida che ricorda da vicino il contesto che generò la Guerra di secessione.
E guai a dimenticarci della Thailandia, dove la monarchia di Rama X è affiancata da una dittatura militare, le proteste popolari infuriano e la repressione è feroce, in base al principio della sacralità e della non criticabilità del re, benché sia sostanzialmente complice di un governo sempre più barbaro.
In questo 2020 sono crollate le residue certezze che avevamo, nel bene e nel male. Sono sotto osservazione tutti i poteri e, con ogni probabilità, nei prossimi mesi cambierà per sempre il concetto stesso di potere, in una sorta di Rivoluzione francese senza illuminismo. Non è poco, in quanto la mancanza di un pensiero compiutamente democratico e progressista potrebbe condurci a una restaurazione feroce, senza aver conosciuto alcun miglioramento delle nostre condizioni di vita e senza aver compiuto un solo passo avanti nel nostro stare insieme.
L’informazione, a tal proposito, deve porsi come osservatore attento, mai giudice ma sempre spirito critico, autorevole, indipendente, in lotta contro tutti i conformismi e i servilismi e contro la pretesa di alcuni di rinchiudere l’Italia in confini che non sono mai apparsi così angusti.
Da questo punto di vista, ci permettiamo di concludere con una riflessione riguardante la RAI e la voce che circola di una possibile chiusura di RAI Sport. Anche lo sport, soprattutto in questa stagione, è molto più di un fenomeno di costume: è una componente essenziale del racconto del nostro tempo e della sua complessità e, pertanto, dev’essere posto al centro del rilancio dell’azienda e dei passi che essa deve compiere verso un domani che è già qui. Per questo, non vogliamo neanche prendere in considerazione l’ipotesi di un ridimensionamento che sarebbe esiziale sia per chi ha il dovere di informare che per chi ha il diritto di essere informato.
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