“Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”, diceva un celeberrimo incipit. Forse oggi non è più così. C’è qualcosa di comune a tutte le famiglie infelici, c’è una cifra riconoscibile e condivisa nelle lacerazioni delle separazioni, nei tradimenti, nelle delusioni, nelle voragini che spaccano il cuore, nelle fughe, nelle bugie, nei pianti, nelle solitudini: il dolore.
Lo ha raccontato bene Domenico Starnone nel bellissimo romanzo, uscito nel 2014 per Einaudi, Lacci, ora diventato film per la regia di Daniele Luchetti, la sceneggiatura dello stesso Starnone, dello stesso Luchetti e di Francesco Piccolo, presentato fuori concorso alla 77. Mostra del Cinema di Venezia.
Tutti i difensori della famiglia tradizionale dovrebbero leggere questo libro e vedere questo film, fedelissimo alla scrittura; un film in cui è molto facile ritrovarsi e riconoscere la propria esperienza.
La storia – che nel romanzo comincia all’inizio degli anni Sessanta e qui è lievemente posticipata – è quella di un matrimonio che va in frantumi per un tradimento, per una relazione che Aldo instaura con la giovane Lidia e per la vita di Vanda, la moglie, e dei piccoli Sandro e Anna che si sgretola ma poi si ricompone senza superare mai l’angoscia che ha lasciato in tutti.
Nel romanzo la narrazione a tre voci si concentra sulla forza che tiene in vita i matrimoni anche dopo l’amore, anche senza l’amore, anche quando non ne vale più la pena, e sulla forza del dolore che può insinuarsi come un tarlo, nemmeno tanto sottile, fino a spingere a non compiere più nessuna scelta se non per reazione, se non per colmare un vuoto, se non per riallacciare lacci che tengano insieme i pezzi andati in frantumi
Il racconto, sulla carta stampata come sulla pellicola, è caricato di allegorie amare, prima fra tutte quella che dà il titolo e poi scene e immagini dal forte sapore evocativo (gli sguardi, la danza, i rumori nella scena della devastazione). I lacci sono quelli che dovrebbero tenere legato un padre ai figli, un marito ad una moglie. Sono quelli che si dovrebbero riallacciare quando si sciolgono, per permetterci, così, di camminare sicuri, spediti, nella vita e non inciampare.
L’amarezza dal sapore di fiele del romanzo viene qui edulcorata da una sottile ironia, dall’uso straniante di una canzone delle Gemelle Kessler che si intervalla con una sonata di Domenico Scarlatti. La struttura narrativa del romanzo è rispettata e si arricchisce del linguaggio del cinema: le tre sezioni, le tre età dei protagonisti si mescolano e si confondono con sequenze che sfumano una nell’altra, passaggi poetici tra i personaggi giovani e la loro versione matura; un nastro si avvolge e si dipana continuamente sul filo dei ricordi e tornando al cuore della vicenda; il passato si sfuma nel presente.
Gli attori Luigi Lo Cascio e Alba Rohrwacher, Silvio Orlando e Laura Morante, si passano la staffetta delle diverse fasce di età, si scambiano i personaggi e lasciano, poi, l’ultima parola, acre, brutale, senza assoluzione, a Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini nel ruolo dei figli maturi. In questa staffetta c’è una vera gara all’interpretazione più intensa, più autentica e vincono tutti: la Rohrwacher diafana ma resa isterica dal grumo di rabbia e ingiustizia che la opprime, la Morante, donna quasi anziana ma senza equilibrio, fintamente saggia, ma ancora spezzata, dopo tanti anni da pensieri rimuginati e pesanti. Luigi Lo Cascio dovrebbe incarnare il ruolo del marito da odiare, del colpevole, del responsabile di tanto male, invece lo si perdona: i suoi occhi, le sue mani che cercano un amore sincero, una vita senza legami, senza lacci, ma che senza lacci non può esistere, lo rendono terribilmente uomo, fragile, dilaniato e quindi vero. Silvio Orlando interpreta il ruolo della maturità, del ripensamento, della ricomposizione di equilibri impossibili, del rimpianto per quell’amore giovanile pieno di passione e di promesse di felicità. Nessun balsamo, nemmeno alla fine, solo la consapevolezza di aver vissuto “nel disastro”.
La regia di Daniele Luchetti mantiene fede al suo stile dal volto umano (ricordiamo Mio fratello è figlio unico,la rappresentazione di un frammento difficile della storia d’Italia negli anni Settanta si mescolava con vicende familiari piene di scontri e amarezze); la camera segue i movimenti degli attori, ne scolpisce gli sguardi e le rughe, sfuma su particolari intensi di luce e trasparenze (le venature delle mani, le mascelle che vibrano nervose, le lacrime che sfuggono, i corpi che si agitano). Ogni fotogramma è un affresco dell’anima, di quelle anime tormentate fino allo spasimo, fino allo scacco, atroce, finale.
Esistenze ferite da quei “lacci che mamma e papà hanno usato per torturarsi tutta la vita”.
LACCI, regia di Daniele Luchetti, con: Alba Rohrwacher, Luigi Lo Cascio, Laura Morante, Silvio Orlando, Giovanna Mezzogiorno, Adriano Giannini, Linda Caridi.