La scomparsa di Gianfranco De Laurentiis, che riempie tutti noi di tristezza e di rimpianto, costituisce al tempo stesso una pietra miliare nel dibattito su quello che dovrebbe essere il ruolo del servizio pubblico nella trattazione dello sport. Molto si è discusso, infatti, in queste ore del futuro della RAI in materia di acquisizione dei diritti televisivi e dell’importanza che deve essere attribuita dall’azienda a uno dei settori cruciali del nostro stare insieme. Ebbene, partendo dal presupposto che nell’azienda lavorano professionisti di prim’ordine, è opportuno riflettere su quale debba essere il ruolo del servizio pubblico nel racconto dell’Italia e del mondo. Lo sport, per la RAI, non può essere considerato alla stregua di un business o di un mero fenomeno di costume, in quanto è una componente essenziale della nostra società e, pertanto, merita una narrazione ad hoc. L’esempio di De Laurentiis ci indica con chiarezza quale debba essere il racconto di eventi che interrogano la comunità nel suo insieme, che chiamano in causa milioni di persone e che costituiscono lo specchio del nostro tempo, in ogni epoca, anticipandone le tendenze e rispecchiandone i mutamenti.
Non sono nessuno per elargire consigli, ma da spettatore, da giornalista e da appassionato di sport mi permetto di dire ciò che vorrei vedere in futuro. Vorrei una RAI in cui lo sport avesse più spazio, in cui i due canali ad esso dedicati fossero sempre differenziati e arricchiti da molti altri programmi di qualità, vorrei una maggiore attenzione nei confronti di quelle discipline che ammiriamo ogni quattro anni alle Olimpiadi e poi tornano tristemente nell’oblio, impedendoci di apprezzare talenti e campioni che, invece, meriterebbero ben altra attenzione. Ma, soprattutto, vorrei che la parte narrativa, il cosiddetto “contorno”, fosse all’ordine del giorno. Vorrei che le telecamere entrassero nelle strade in cui i fenomeni hanno mosso i primi passi, vorrei che anche i miti venissero umanizzati, vorrei che l’impegno sociale di tanti fuoriclasse venisse fatto conoscere, intaccando quell invidia dannosa che sfocia spesso in un populismo insopportabile, e vorrei che sport, racconto della società, costume e contesto complessivo si intrecciassero, come accadeva ai tempi in cui Zavoli ci faceva conoscere la straordinaria figura di Vito Taccone o, molti anni dopo, quando Gianni Minà ci portava alla scoperta dei ventiquattro paesi che avrebbero trepidato davanti al televisore in occasione dei mondiali di Italia ’90.
Lo sport è una componente essenziale del servizio pubblico e merita attenzione e investimenti, anche perché, proprio per la sua importanza e in relazione alla delicatissima fase storica che stiamo vivendo, ha la capacità di tenere insieme le differenze, di valorizzare le diversità, di unire ciò che in ogni altra occasione è diviso e di farci sentire una collettività in cammino. È la magia di oggi e di sempre di un mondo che non può essere accostato unicamente all’idea di divertimento, avendo quel valore epico che Pasolini e pochi altri intellettuali gli hanno attribuito e che la politica fa, in parte, parecchia fatica a comprendere.
Lo sport, per il servizio pubblico, non dev’essere solo una ricchezza ma anche un’opportunità di rilanciarsi e di mostrare il volto migliore di un’umanità che, nella tragedia, ha più che mai bisogno di ritrovare se stessa.
P.S. Un pensiero affettuoso a Jole Santelli e ai suoi cari. Un’avversaria, certo, ma prima di tutto una gran bella persona che ci mancherà.
P.S. 2 Settant’anni fa nasceva “Epoca”, il settimanale in grado di coniugare articoli di sopraffina qualità a immagini che hanno fatto la storia del fotogiornalismo. Fu la grande intuizione di Mondadori, che si ispirò all’americano “Life” e, negli anni Cinquanta, ne venne affidata la direzione a un giovane ma già straordinario Enzo Biagi. Un incontro di talenti e qualità umane che ha caratterizzato una delle pagine più belle e significative del giornalismo italiano.
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