Il 16 ottobre è stato decapitato vicino a Parigi, il professore di storia Samuel Paty, ieri è toccato al sacrestano e ad una fedele settantenne nella basilica di Notre-Dame, in pieno centro a Nizza, per mano di Brahim Aouissaoui. Siamo di nuovo dentro l’orrore del terrorismo, per il quale la decapitazione ha un forte valore simbolico. L’usanza di tagliare la testa inizia con la storia dell’uomo. La testa mozzata del nemico da sempre è trofeo di vittoria. Lo facevano gli Assiri, i Celti, i Galli…. Nel Medioevo e nell’Età Moderna la decapitazione è la punizione per alcuni reati. La praticavano gli Egizi, i Greci, i Romani, i giapponesi. Eseguirla in piazza, davanti al popolo, serviva da deterrente. Un’immagine che ci porta in Francia ai tempi della Rivoluzione, quando la ghigliottina – un marchingegno per la decapitazione in serie – venne utilizzata in forma massiccia, non risparmiando neppure i regnanti. Per la camorra è una forma di avvertimento. Ma la decapitazione è tornata “in auge” con l’avvento di Isis. Tagliare la testa è il messaggio più terrorizzante per gli “infedeli”.
Bisogna, però, che tale messaggio abbia ampia risonanza mediatica. E Isis era diventato bravissimo nel veicolare in rete immagini di brutali esecuzioni. Ci restano negli occhi le uccisioni dei reporter statunitensi James Foley e Steven Sotloff.
Dopo che Isis è stato considerato sconfitto, pensavamo di essere al sicuro e abbiamo abbassato la guardia. I controlli della temperatura hanno sostituito il passaggio delle borse sotto gli scanner. Ma i conti non tornano: dove sono finiti tutti i combattenti accompagnati fuori da Raqqa dopo la riconquista della città da parte delle forze arabe e curde con l’appoggio Usa? Dove sono finiti i foreign fighters di ritorno? Hanno occupato per qualche mese i titoli dei giornali, ma da un certo punto in poi sono spariti nel nulla. Progetti di de-radicalizzazione sono stati posti in essere? Tutto è stato avvolto nella coltre, grazie anche alla pandemia che ha catalizzato tutti i media, come se il mondo si fosse fermato. In realtà, le persone hanno continuato a morire in attacchi jihadisti nei paesi caldi del pianeta, dal Pakistan al Mali, dall’Afghanistan al Burkina Faso, al Camerun… Ma, come ormai abbiamo imparato, se il terrorismo non colpisce l’Europa, non ci riguarda. Siamo bravissimi a dividere le vittime di serie A da quelle di serie B. Alle prime intitoliamo aule scolastiche e strade, alle seconde dedichiamo forse poche righe a pagina 30. Questo non fa che alimentare l’odio verso l’Occidente considerato ancora colonialista perché, anche se ha cambiato modalità, continua a depredare.
Ma l’aspetto più inquietante di tutto questo, è che non sempre c’è una regia negli attacchi. Anzi, nella maggior parte dei casi ad agire sono individui o piccoli gruppi di soggetti disadattati, emarginati, che non si sentono accettati perché, pur essendo nati in Europa, sono figli di stranieri. È lì che si nasconde la rabbia. Mettiamoci un sistema che allarga sempre di più la forbice tra ricchi e poveri, che non è più capace di creare occupazione, una politica che, per accaparrarsi voti, mette gli uni contro gli altri, il divide et impera di antica memoria. La novità è che ci sono anche figli di famiglie benestanti, che agiscono spinti dal “nichilismo”, spiega il massimo islamista contemporaneo, il francese Oliver Roy. La radicalizzazione avviene su Internet, dove sono diffusi i dettami dell’Islam più integralista, e dove al-Qaeda e Isis reclutano. Combattere le ingiustizie perpetrate dall’Occidente esercita grande fascino su giovani disorientati, che danno così un senso alla loro vita.
Il risultato è quello di questi giorni. La Francia è da anni nel mirino jihadista anche per la sua politica estera, in Mali per esempio. Certo, in questo caso c’è di mezzo la caricatura del Profeta Mohammed pubblicata dalla rivista Charlie Hebdo, in nome della libertà di satira. Ma, in una situazione sociale già esplosiva, basta un fiammifero. È il “terrorismo fai da te”. Infatti, al-Naba, la testata ufficiale di Isis, al momento non fa cenno agli attacchi di ieri (oltre a Nizza, ce ne sono stati altri tre: ad Avignone, Lione e al consolato francese di Gedda, in Arabia Saudita). E sia il killer di Paty che quello di Nizza risultano sconosciuti all’intelligence.
Entrambi avrebbero urlato Allahu Akbar, quella che è un’invocazione e una preghiera, da anni è diventato un grido di guerra, che fa comodo a tutti. All’attentatore, che così si legittima nella sua missione divina; a Isis o al-Qaeda, che possono sempre dichiarare che quello era un proprio “soldato” attribuendosi così la paternità di quanti più attentati possibili, e di certa parte politica, che può dare la colpa ai musulmani. È un giochetto che ormai dovremmo aver imparato a conoscere, invece continuiamo a cascarci, perché in fondo ci viene facile invocare la “guerra di religione”. Nel caso di Nizza, tutto questo assume un connotato ancora più marcato visto che gli omicidi sono stati perpetrati dentro ad una chiesa. Eppure, se si va ad analizzare le vite di questi jihadisti last minute, si scopre che per lo più non conoscono il Corano (al massimo, hanno letto un Bignami del Testo sacro all’Islam) e non hanno mai frequentato una moschea. Gli attacchi terroristici fanno un gran male al dialogo interreligioso. Ma il cammino adesso è più difficile da arrestare, perché più maturo, grazie anche alle aperture di papa Francesco.
In una nota della Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, si legge: “Dolore e vicinanza alle vittime del crudele attentato di Nizza e alle loro famiglie, ai Pastori e ai fedeli di Francia” e, “allo stesso tempo, la più ferma condanna della cultura dell’odio e del fondamentalismo che usa l’alibi religioso per corrodere con la violenza il tessuto della società”. E sempre più spesso al-Azhar, il più grande centro di formazione dell’Islam sunnita, con sede in Egitto, ma anche l’Ucoii (Unione delle Comunità Islamiche Italiane), condannano le azioni terroriste: «Non vi è alcuna giustificazione per questi abietti attacchi terroristici che contraddicono gli insegnamenti tolleranti dell’Islam e di tutte le religioni monoteiste», ha detto Ahmad al-Tayyb, grande imam di al-Azhar. Ma anche queste prese di posizione non riusciamo mai ad inserirle tra le prime pagine. Bad news continua ad essere good news.