Con Pino Scaccia si rideva, si rideva sempre. Perché Pino non possedeva solo la precisione del grande cronista, il talento dell’inviato di rango e l’umanità del giornalista di una volta, figlio del servizio pubblico che ha contribuito a rendere importante il nostro Paese: era anche un uomo simpatico e alla mano, gentile e sempre ricco di aneddoti.
Quando ti adottava, perché Pino per i giovani aveva un’autentica predilezione, era uno che si sedeva a tavola con te e ti narrava di quel giorno in cui pranzò a Tunisi a trenta gradi e cenò a Helsinki a meno trenta, nel giro di poche ore, e resisteva a ogni intemperie, a ogni avversità, a ogni difficoltà, inseguendo le notizie senza mai cercare lo scoop fine a se stesso. E quanti ne ha realizzati di scoop! Dai resti del Che in Bolivia alla tragedia Černobyl’, è stato protagonista di quasi quarant’anni di RAI, in un Tg1 dal sapore antico, senza forzare mai la mano, senza accanimento, senza porsi al centro del racconto ma riuscendo, al contrario, a dare spazio a una pluralità di voci.
Pino Scaccia è stato uno dei miei miti da bambino e uno dei miei amici da adulto. Ricordavamo spesso quel Tg1 che ha formato una generazione, in un’altra stagione, non certo priva di problemi ma comunque assai migliore della tristissima fase storica che stiamo vivendo.
Pino lo diceva con un filo di voce, quasi con vergogna: “Era un’altra RAI”. E poi si lasciava andare, raccontava, raccontava, raccontava e nelle sue storie si scorgeva la fiammella della speranza, la rabbia che si trasformava in passione, l’energia di un cronista che è rimasto tale fino all’ultimo giorno e si è sempre preoccupato di far crescere eredi all’altezza.
Pino era un uomo perbene, cui non pensava affatto esserlo.
Una volta, scherzando, mi disse che era nato e vissuto per due settimane sotto la monarchia, in quel ’46 che ha cambiato per sempre la storia d’Italia. Sedersi a tavola con lui era come aprire un libro di storia, un libro che ora si è chiuso per sempre.
Amava anche lo sport, la Lazio in particolare, e non rinunciava mai a coniugare l’alto e il basso, la cultura dei maestri e quella popolare. Le apprezzava allo stesso modo, il che gli consentiva di entrare nelle case di milioni di italiani con un garbo oggi pressoché sconosciuto e di non lasciarsi mai cogliere alla sprovvista.
Se n’è andato a settantaquattro anni, assassinato dal Coronavirus, dopo aver combattuto per tutta la vita contro ogni demone. Lo ha sconfitto il peggiore, il più subdolo, l’unico che non è riuscito a piegare con il suo coraggio e la sua esemplare professionalità.
Ciao Pino, continueremo a volerti bene.
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