C’è un paese in Calabria, Timpamara, dove gli abitanti hanno nomi stravaganti, nomi letterari o storici, qualcuno scientifico.
Sono nomi di scrittori o di personaggi di grandi romanzi o poemi, tragedie o commedie, oppure sono nomi di autori.
C’è un Eraclito, un Pascal, un’Artemisia, un Prospero, un Ippolito, c’è pure un Mopassàne un Publiovidio, una Nicea, una Addis Abeba, una Margherita, e così via.
E poi c’è Astolfo Malinverno, il protagonista di una storia surreale e triste, l’unico “bibliotecario guardiano di cimitero che l’umanità abbia avuto”, innamorato di Ofelia.
La ragione di questi nomi sta nel fatto che a Timpamara era stato istallato un impianto per la fabbricazione della carta riciclata. Qui venivano raccolti quintali di carta usata, riviste, quaderni, libri, enciclopedie, manifesti, locandine, che venivano mandati al macero. Gli operai della cartiera cominciarono ogni tanto a prelevare qualche frammento di carta, un articolo sportivo, una rivista, uno stralcio di un romanzo, e a leggerlo, o farselo leggere quando erano analfabeti. La sera, con la stanchezza addosso, si mettevano a leggere e a far leggere tutta la famiglia. Divennero, in un paese di operai, “untori di cultura”.
Qualche volta la natura contribuiva: il vento, il ponente che arrivava dal mare, afferrava fogli e fogli e li spargeva, faceva svolazzare frammenti di romanzi francesi, di dialoghi Platonici, di trattati scientifici. In ogni angolo di Timapamara arrivavano, come foglie della Sibilla, pagine e pagine di letteratura e storia e tanto altro e arrivavano nomi sconosciuti, affascinanti, dal suono nuovo. Un cittadino per la prima volta diede a suo figlio, per un dispetto al padre, il nome di Victorùgo, così tutto attaccato.
Da allora i nomi vennero scelti da questa combinazione di vento e letteratura. Da un evento fortuito derivava l’identità del nuovo individuo e anche il corso della sua vita perché ognuno “sembra che ce l’abbia scritto nel nome il suo destino”.
Astolfo Malinverno si chiamava così perché i genitori lo avevano concepito su un cumulo di libri che aspettavano il macero e perché la madre aveva amato quello stralcio di poema dove si parlava di un cavaliere che era andato sulla luna.
Due luoghi stanno al centro di questa storia: una biblioteca e un cimitero; due luoghi che diventano un ricettacolo di storie. Alcune vere, appartenenti al passato, finite con la morte, altre create, inventate, sognate e quindi eterne. Le vicende parallele di uomini vissuti e personaggi letterari si intrecciano in una allegoria borgesiana dove il caso scombina i fogli e l’uomo mette ordine al kaos. Come le foglie della Sibilla brani di romanzi e spartiti volano e dettano strane combinazioni ed esistenze.
Il romanzo dove si sviluppa questa storia si intitola Malinverno, il suo autore è Domenico Dara (pubblicato da Feltrinelli) ed è un romanzo davvero bellissimo. Non possiamo usare altri aggettivi né risparmiarci nella definizione.
Domenico Dara, autore calabrese, ha già dimostrato il suo talento con i primi romanzi, Breve trattato sulle coincidenze e Appunti di meccanica celeste. Il suo grande interesse è l’indagine sul destino dell’uomo. Possiamo definirlo un autore Greco (lui originario dalla Magna Grecia), che si interroga su tykée fatum, su predestinazione e clinamen, su libero arbitrio e necessità. Intorno a questi temi ha incentrato l’invenzione di un personaggio come Astolfo Malinverno che si nutre di libri e ne fa la sua vita, un uomo sofferente, zoppo, solo che somiglia tanto al Don Chisciotte che legge, che ama e di cui si diverte a riscrivere il finale.
Attorno a lui una rassegna di varia umanità, una cittadinanza che si lega alla vita di Astolfo, lo accompagna e dirige le varie traiettorie esistenziali in un labirinto antropologico e ontologico, nonché letterario, come in un’Antologia di Spoon River. Un romanzo d’amore, di formazione, un giallo, un saggio di filosofia, un mistero religioso, un trattato di critica letteraria, una poesia. Tutto questo si racchiude in Malinverno.
Domenico Dara, come nei precedenti romanzi, affascina. Ha una fluidità di scrittura, una ricchezza stilistica (con le sue metafore originali, un’aggettivazione sorprendente, qualche neologismo, riferimenti coltissimi), che rende questa narrazione una trappola dalla quale il lettore non può fuggire, ne rimane ammaliato, affascinato, rapito. Rapito per correre dentro un arabesco di incontri, fatalità, circostanze, ipotesi, possibilità, intrighi.
E mentre si rimane rapiti dall’intreccio si riflette sulla vita, sulla morte, sull’amore, sulla solitudine, sul dolore, sulla lettura e la letteratura. C’è dentro un meta romanzo e un extratesto, come quando ci dice che non si può leggere senza sottolineare, senza l’uso continuo della matita. E noi, che non amiamo i libri intonsi, vergini, ma li viviamo nella lettura, sentiamo che ci stia parlando, che il lettore ideale siamo proprio noi.
Non vogliamo aggiungere altro alla sinossi. Questo è un romanzo che va letto e amato per seguire la vicenda di “Astolfo Malinverno custode di libri, guardiano del cimitero, protettore dei vinti”