Si è quasi sorvolato, e non si dovrebbe, sul particolare che i due film italiani provenienti dall’ultima Mostra di Venezia, con più compatta presenza di pubblico (contingentato) in sala, sono entrambi di derivazione teatrale. Da cui credo che desumano una certa duttilità e incisività di dialoghi coniugati ad un plot narrativo immerso in una sorta di “verismo” di variegate ambientazioni ed un fremente segmentarsi di psicologie dolenti e di scarna, impotente umanità: incapace di farsi “adulta” (ma lo desidera sul serio?), aggrovigliata in una ‘coperta’ rassicurante di interdipendenze familiari.
L’inaugurale opera di Daniele Luchetti deriva, come è noto, dallo spettacolo di Domenico Starnone, protagonista Silvio Orlando (con regia di Armando Pugliese) costretto all’interruzione (era di scena all’Eliseo di Roma) nei giorni di marzo che conclamarono segregazione e pandemia. Ed è quasi inevitabile (in senso positivo) che la versione filmica- sceneggiata dal regista con Francesco Piccolo e lo stesso Starnone- complichi e dilati nel tempo e nello spazio ciò che sulla scena si affidava ai cartesiani assi aristotelici, avvitando epoche e personaggi su uno stridente pentagramma di scelte, allo stesso tempo, tentennanti e categoriche, decimate da dubbi e rimorsi coniugali, in cui l’arte “del tormento” (inflitto o subito) funge da carburante alle invettive che i due ‘malmaritati’ si infliggono (da decenni) con risvolti sadomasochisti aggravati dal piacere del vittimismo. Ovvero: alla consueta, maciullante insegna del “né con te né senza di te” (…ah se Ovidio non ne avesse fatto un alibi per i posteri!))- e tanti saluti al disagio, al dolore, alla non tenera reazione dei figli testimoni del micro inferno domestico.
Da sempre animato da una eclettica forma di realismo svaporato, sghembo, non ortodosso (da “Arriva la bufera” a “La settimana della Sfinge”, da “Domani accadrà” a “La nostra vita”) annota il regista di Daniele Luchetti si lascia volentieri sorprendere sinuoso esploratore di certa nostra sub-cultura che sta alla convergenza fra perbenismo e disinibizione, casanovismo di facciata e tradimenti di routine: periodicamente adornati da codardi “sensi di colpa” qui mirati all’acuminata, quasi “ aforistica forza dei dialoghi “scolpiti dei protagonisti” e sulla loro collocazione -“distratta” ma” “ossessiva”- in due città come Napoli e Roma, volutamente restituite come luoghi qualsiasi e ininfluenti. Dotata dei personaggi strettamente necessari (marito, moglie, giovane amante dal “corpo scultoreo”), la commedia –amarissima, materica- procede per strappi e trasalimenti in un mosaico ove il ping- pong di insofferenza, abbandoni, ricatti morali pare non abbia sbocchi diversi dalla mortificante “baraonda” di defezioni e falsi perdoni, in cui è l’uomo ad agire e la donna a rilanciare (in modo subdolo e crescente).
Dovendo poi consumarsi in un arco di tempo superiore ai trent’anni, “Lacci” ha i volti, le espressioni, le caparbie negligenze di attori ed attrici che “trasformano” volto e postura man mano che il tempo li incarognisce. Magistrali, simbiotici, “naturalmente strafottenti” (come diceva Patroni Griffi) nelle loro ossessioni dissolutive, emergono quindi le prove di Luigi Lo Cascio, Alba Rohrwacher, Silvio Orlando, Laura Morante- a rifinitura estetico-sostanziale di un’opera cui la ristrettezza di sale e pandemia potrebbe impedire la divulgazione verso un pubblico non occasionale: o di soli addetti ai lavori. Sarebbe iniquo e beffardo…
Pa. Da come mi sono espresso, si potrebbe supporre, in Luchetti, qualche ascendenza o ispirazione da Bergman e Strindberg. Nulla di nulla. L’italica commedia del cinema ci ha da tempo svezzati a molte tipologie di ignara “mostruosità”: nei rapporti interpersonali, specie i più intimi.
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Tanto discreta e defilata è l’ambientazione romana e napoletana di “Lacci”, tanto più imprescindibile e necessaria emerge la Palermo popolare e a suo modo “favolistica” de “Le sorelle Macaluso”, che Emma Dante (con Elena Stancanelli e Giorgio Vasta) ricava da uno dei suoi maggiori capitoli di teatro (ove la città-degli-ultimi è sempre co-protagonista a staffetta di una saga dolente e infinita) . Singolarmente, ma non troppo, il film inizia dal ……buco di una parete di casa. Cosa c’è dall’altra parte? Perchè le ragazzine perforano con accanimento? Possibile che il loro legame, la loro “sorellanza” si prolunghi inalterata sino alla mesta vecchiaia consumata nel corso del film senza mai lasciare la “tana comune” situata all’estrema periferia di Palermo? Ovviamente non è dato sapere, poiché non “c’è alcun bisogno” di appurare chi furono i loro genitori, i loro parenti e congiunti, quali sventure ‘portarono per mano’ le Macaluso (diffuso cognome panormita che è già eponimo di luoghi, discendenze, odori pervasivi) sino ad una senescenza che sarà ‘favolistica’ e rarefatta, “senza mai darla vinta alla nostalgia”.
Diversamente da quel che accadeva nella versione scenica, la logica e la verosimiglianza del racconto non hanno più ragion d’essere- e per determinante merito degli sceneggiatori aboliti del tutto. “Libero, sconcertante, bellissimo” –come commentarono a Venezia – il secondo film di Emma Dante (che esordì proprio al Lido con “Via Castellana Bandiera”, bizzarro e incattivito kammerspiel al chiuso di un’auto incastrata dal traffico) riesce a ingentilirsi di tutte le iniquità, emarginazioni, cattive illusioni, perdite irreparabili che sembrano ruotargli intorno come spirito maligno: ambiguo, poetico, disarmante, ma allo stesso tempo spietato e inarrestabile. Con l’orgoglio, tuttavia, di chi non cede ai compensi della rassegnazione e dell’inerzia dei vinti.
Antidoti alla condizione etereo- plebea? Forse i colombi allevati dalle sorelle per feste e ricevimenti, che spiccano il volo variopinte ma “sanno” sempre come tornare a casa. Non meno delle brevi escursioni lungo uno sporco canale sino alla visione del Mare che in Emma Dante ha sempre la simbolica pregnanza dell’utopia, della libertà, della liberazione da ogni umana miseria. Come l’unica sorella che, quel giorno di breve anarchia, si “sperderà” dissolvendosi nel nulla – “E da allora nulla sarà più come prima”.
Ineffabile, a suo modo utopico, straziato ma leggiadro come certi racconti di Anna Maria Ortese (citati da entrambi gli sceneggiatori) “Le sorelle Macaluso” vaga nella perenne, impossibile attesa di un nume tutelare, di una forza-empirica o metafisica- che renda la vita di ciascuna non futile ed agiata, ma trasognata e benigna. Arricchendosi il film di un suo peculiare realismo magico (quello che a volte intravedemmo nelle migliori opere di Sergio Citti, come “ I magi randagi”) in cui agiscono simbiotiche ed empatiche le dodici protagoniste di un’opera vivida e sofferta: Alissa Maria Orlando, Susanna Piraino, Anita Pomario, Eleonora De Luca, Viola Pusatieri, Donatella Finocchiaro, Serena Barone, Simona Malato, Laura Giordani, Maria Rosaria Alati, Rosalba Bologna, Ileana Rigano (eccellente attrice di teatro purtroppo scomparsa durante l’estate).
Da non perdere -ad ogni costo.