Due anni fa il reporter saudita del Washington Post Jamal Khashoggi entrava nel consolato saudita a Istanbul per non uscirne più. vivo. Oggi, nel giorno del secondo anniversario della brutale uccisione accertata dai rilievi e le indagini turche, giornalisti e attivisti per i diritti umani hanno chiesto giustizia promuovendo un sit-in con decine di manifestanti che si sono radunati al memoriale eretto in onore di Khashoggi vicino all’edificio della sede diplomatica dell’Arabia saudita nella città turca.
Un mese fa è stato emesso il verdetto finale per il suo omicidio ma, come ha evidenziato il portavoce dell’ufficio per i diritti umani, giustizia non è stata fatta perché nel corso del procedimento saudita che ha visto la condanna di otto persone, senza per altro svelare l’identità degli imputati, “è mancata la trasparenza”.
Il 59enne editorialista del Washington Post dopo essere stato ucciso sarebbe stato smembrato da sicari arrivati da Riad poco dopo essere entrato nel consolato del suo Paese a Istanbul, in Turchia, il 2 ottobre 2018. Riad ha offerto versioni contrastanti per spiegare la sua scomparsa prima di ammettere che è stato assassinato nell’edificio diplomatico in una “operazione canaglia”. A metà settembre il tribunale penale saudita ha commutato condanne a morte di primo grado infliggendo pene detentive fino a 20 anni a 5 imputati che sono stati “graziati” dalla famiglia del giornalista. In un’intervista al quotidiano saudita al Sharq al Awsat, l’avvocato della famiglia Khashoggi, aveva salutato il verdetto definendolo “giusto e fa da deterrente per futuri criminali”.
Non sono in pochi coloro convinti che i familiari della vittima sono stati “costretti” a perdonare i sicari proprio per risparmiarli della condanna a morte come prevede la legge saudita e come vuole l’establishment del regno che ha deciso di sacrificare dei capri espiatori pur di chiudere la vicenda che ha visto coinvolto, come presunto mandante, il principe ereditario Mohammed Bin Salman .