Sequestrata per una notte intera in una roulotte, massacrata e violentata fino al mattino, quando sono arrivati i carabinieri allertati dalla figlia.Il responsabile era stato condannato con il rito abbreviato dal Tribunale di Monza già all’esigua pena di 5 anni di reclusione. Ma la Corte d’Appello l’ha ridotta oggi a 4 anni e 4 mesi, con una sentenza che lascia interdetti e farà discutere a lungo.
Per questi giudici l’intensità del dolo ravvisabile nei reati è attenuata dalla “mitezza” dell’imputato, “esasperato dalla condotta troppo disinvolta della donna”, che lo stesso “aveva passivamente subìto sino a quel momento”.
L’8 giugno 2019 a Vimercate (Monza) un 63enne di origini romene, aveva aggredito la compagna connazionale di 43 anni, a causa di “tradimenti con uomini conosciuti su Facebook”.
Secondo la ricostruzione processuale, l’aveva insultata e minacciata di morte, puntandole un coltello al viso, distruggendole il cellulare per terra e colpendola con un tavolino di legno e con numerosi pugni al viso, specie all’occhio sinistro.
Non soddisfatto, l’aveva presa a schiaffi a mano aperta, e poi l’aveva attinta con una serie di altri pugni al mento e alla schiena, “così forti da farle mancare il fiato”, trascinandola infine per i capelli e scaraventandola sul letto.
“Di qua non esci viva” le avrebbe detto prima di violentarla.
La Corte d’Appello paradossalmente ha confermato l’esistenza di “una prova granitica e davvero consolidata” ed anche la correttezza dell’imputazione di sequestro.
Ma nel contempo, scrive il collegio giudicante formato dalla relatrice Francesca Vitale, dal presidente Marco Maria Maiga e dalla giudice a latere Elena Minici, il ricorso della difesa “può trovare accoglimento” relativamente all'”eccessività del trattamento sanzionatorio”.
E così, a parere dei magistrati di secondo grado ha acquisito rilievo il “contesto familiare e sociale caratterizzato da anomalie, quali le relazioni della donna con altri uomini, dall’imputato quasi favorite o comunque non ostacolate”, tanto che la vittima era rimasta addirittura “incinta di un altro soggetto”.
Altre parole vengono tuttavia spese dalla Corte, secondo cui il colpevole era ” forse esasperato dalla condotta troppo disinvolta della convivente, che aveva passivamente subìto sino a quel momento”.
E questo per i giudici “se certo non attenua la responsabilità, è tuttavia indice di una più scarsa intensità del dolo, e della condizione di degrado in cui viveva la coppia”.
Parole che oltre ad una condanna più lieve, sentenziato un’altra retrocessione nella oramai troppo difficile battaglia per la tutela della donna, che torna ancora una volta a “meritarsi” la violenza del proprio compagno, giustificato dall’ennesima tipica condotta anche stavolta giudicata reprensibile e in qualche modo concausa di quanto è accaduto.
La vittima in un modo o nell’altro anche stavolta se l’è cercata.
E di nuovo gli avvocati antiviolenza ma la stessa società civile che da anni si impegna strenuamente nella difficile battaglia di promozione e cultura del rispetto verso la donna, restano basiti ad interrogarsi sul perché di queste decisioni.
Le parole di questa sentenza pesano come macigni, e a rileggerle verrebbe da chiedere a questi tre giudici, due delle quali peraltro donne, di fermarsi un attimo a riflettere, fra i tanti processi che seguono, e rispondere a un paio di legittime domande.
Cosa avrebbero fatto se fossero state le sorelle o le madri di questa donna, “giustificatamente” massacrata e violentata dal partner perché con la sua condotta lo avrebbe esasperato.
E che effetti può avere una sentenza motivata così sul modus pensandi di una società che, come purtroppo è notorio e all’ordine del giorno, è già sfinita dalla violenza.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21