Antonino Caponnetto se fosse ancora in vita avrebbe compiuto cento anni. E’ stato ed è un esempio per i giovani. Coordinò e perfezionò il pool antimafia creato da Rocco Chinnici. Accanto a sé chiamò Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Gioacchino Natoli, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Era un uomo umile, mite, gentile, buono e soprattutto generoso. Un vero servitore dello Stato. Amava i giovani e si spese fino all’ultimo per loro, per educarli alla legalità spingendo sul senso del dovere e sulla corresponsabilità. Io lo conobbi 17 febbraio 1995. Grazie all’intercessione di Maria Falcone, riuscii a contattarlo e portarlo a Termoli come relatore sul tema “La lotta alla criminalità organizzata nello Stato di diritto: problemi e prospettive”.
Ricordo come fosse oggi che arrivò in una Termoli deserta per le imponenti misure di sicurezza: era ancora Consigliere Capo Istruttore a Palermo. Al suo arrivo gli si presentarono tutte le più alte cariche della Regione, ma lui del tutto inaspettatamente chiese del dottor Musacchio. Oltre ad essere un emerito sconosciuto, ero l’ultimo di una lunga fila oscurato da persone istituzionalmente più importanti di me. Alzo la mano e lui scorre la fila e viene verso di me. Mi disse: “Caro Musacchio, Maria Falcone mi ha parlato molto bene di te… Vieni … e mi porta verso il panorama marino di Piazza Sant’Antonio, circondati quasi da un esercito di poliziotti e carabinieri. Allora come vogliamo impostare quest’incontro?”
E così incominciammo a parlare di come approfondire il tema del convegno. Il Cinema Sant’Antonio era stracolmo e tantissime persone purtroppo rimasero fuori. Ricordo fece una disamina del fenomeno mafioso, fornì l’orientamento necessario per comprendere i legami che la mafia intrattiene col mondo politico. Lo guardavo estasiato dalla sua dolcezza nell’esporre le sue tesi, poi disse: “a differenza delle organizzazioni puramente criminali, o del terrorismo, la mafia ha come sua specificità un rapporto privilegiato con le élite dominanti e le istituzioni, che le permettono una presenza stabile nella struttura stessa dello Stato”. E che “La mafia è l’estensione logica e la degenerazione ultima di un’onnicomprensiva cultura del clientelismo, del favoritismo, dell’appropriazione di risorse pubbliche per fini privati”. Terminò il suo intervento con un invito: occorre che gli onesti si riapproprino delle istituzioni e della politica! Quest’ultima frase me la ripeté ogni volta che ci incontravamo o che ci sentivamo al telefono.
Terminato il Convegno, era ormai buio, presi coraggio e gli chiesi se volesse cenare con me e la mia famiglia. Mi aspettavo un secco no anche perché aveva già prenotato un albergo in loco e poi lo aspettavano molte delle autorità presenti. La sua risposta fu disarmante: perché no? Si deve fare carico anche di mia moglie mi disse sorridendo. Mi mise la mano sulla spalla e mi chiese, dove andassimo. Li portai a casa dei miei genitori che rimasero a dir poco disorientati. Vidi lo sguardo di mia madre che se avesse potuto mi avrebbe “giustiziato” in loco senza processo. Fu una cena semplicissima (mia madre da buona pugliese in fretta e furia preparò le orecchiette con i pomodorini fatte con la farina del nostro grano e ricordo, furono graditissime dalla coppia), oltre alla mia famiglia c’erano tre magistrati miei amici di lunga data. Le sorprese non finirono li. Dopo cena convinsi il dottor Caponnetto a rimanere a dormire in casa per poi ripartire la mattina presto com’era in programma. Credo gli fossi particolarmente simpatico. La nostra casa fu presidiata tutto il tempo. I miei genitori cedettero il loro letto matrimoniale ed io ebbi l’enorme privilegio di passare alcune preziosissime ore con chi creò (sull’insegnamento di Chinnici) il pool antimafia di Palermo. Parlammo tanto (onestamente non ricordo tutto) e ho memoria del fatto che rimarcò molte volte di non smettere di ricordare che Falcone e Borsellino diventarono eroi nazionali soltanto dopo la loro morte. Prima – continuò – sono stati continuo oggetto di veleni, sospetti, maldicenze che, tutte insieme, rafforzarono l’intreccio che portò alla loro fine. Mi confermò che furono spesso accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello Stato.
Quando, il 21 giugno del 1989 (attentato dell’Addaura) la polizia ritrovò l’esplosivo in un borsone lasciato nella spiaggia antistante alla villa che Falcone aveva preso in affitto, ci fu chi disse che l’attentato, il magistrato se lo era organizzato da solo per farsi pubblicità. Si soffermò sugli attacchi durissimi che Falcone ricevette da Leoluca Orlando e ricordò quando Salvatore (Totò) Cuffaro inveì sempre contro Falcone sostenendo che i discorsi sulla mafia che si stavano facendo erano lesivi della dignità della Sicilia. Si ricordò persino un’intervista di Corrado Augias a Falcone nel corso della trasmissione Babele, nel 1992, pochi mesi prima della morte del magistrato. A un certo punto, una delle ospiti in studio ritiene di poter chiedere candidamente al magistrato: “Lei dice che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei è fortunatamente ancora tra noi, chi la protegge?” E Falcone, sconsolato: “Questo significa che per essere credibili bisogna essere ammazzati, in questo Paese?” Mi disse che tutti questi attacchi facevano molto male a Falcone, anche se lui non lo dava a vedere. Mi raccontò della sua mancata nomina, dopo il suo pensionamento, a capo dell’ufficio istruzione di Palermo.
Il Consiglio Superiore della Magistratura gli preferì Antonino Meli. Il che era legittimo ma sconcertante non con il senno del poi, ma già con quello che avrebbe dovuto guardare ai risultati del maxiprocesso. Tutto il pool antimafia non riusciva a comprendere come fosse possibile sbagliarsi tanto su Falcone e Borsellino mentre erano vivi! Su Paolo Borsellino mi raccontò che sapeva di essere nella lista della mafia e che il tritolo per lui fosse già arrivato a Palermo. Mi raccontò che Borsellino aveva chiesto già un mese prima della strage alla Questura palermitana di voler disporre la rimozione degli autoveicoli dalla zona antistante all’abitazione della madre. Era affranto e incredulo su questo fatto. Gli domandai della sua frase straziante alle telecamere subito dopo la Strage di via d’Amelio: “È finito tutto!”. Mi rispose che in quel momento sarebbe voluto morire anche lui. Evidenziò il rammarico per quella frase detta in un momento di sconforto e mi disse che quelle parole da allora in poi dovevano essere un motivo in più per farsi coraggio, per riprendere le forze e la speranza, e lavorare sul cambiamento culturale e sulla lotta alla mafia. Caponnetto diventò il primo rappresentante della società civile, girò l’Italia in lungo e in largo per testimoniare nelle scuole la sua esperienza e portare avanti le idee dei magistrati uccisi dalla mafia.
Ci sentimmo molte volte, ebbi il privilegio di avere il telefono di casa a Firenze dove se non ricordo male, abitava in Via Baldasseroni e partecipammo insieme con alcuni incontri soprattutto con gli studenti. Quando ripenso a quei momenti, mi pervade un’enorme sensazione di felicità. Quando il 6 dicembre del 2002 morì in un ospedale fiorentino piansi come quando si perde un familiare. Ancora oggi mantengo la promessa che gli feci e che lui direttamente mi chiese di mantenere. Mi disse: Vincenzo mi devi promettere una cosa… Spero di onorare la mia promessa e mi auguro che da lassù lui mi possa guidare.
Vincenzo Musacchio, giurista, professore di diritto penale, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA) e ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra.